Se stasera avessi un blog
forse prenderei
posizione. Che questa era una delle intenzioni del giornalino in rete.
La prenderei su una questione tutta pisana, sorta sul riluttante tramonto dell’anno in corso, credo fosse autunno. Una questione su cui molti si sono espressi. Che a tratti mi ha provocato rabbia, il più delle volte mi ha fatto sorridere, manco so bene perché. Mi ha fatto sorridere questa cosa del pugno battuto sul tavolo, il velafacciovedereioatutti.
Ma sul finire dell’anno, con la questione ancora in bilico, regalo a
qualcuno una chicca di letteratura. E chi non l’ha letta, da bambino, quella
pagina di Calvino su una libera dormita, disturbata da idranti per aiuole, fidanzati
in crisi e semafori, in una notte afosa, su una panchina. Con buona pace
dell’agente Torquanici.
Perché la letteratura ci salverà.
Estate
La villeggiatura in panchina
Andando ogni mattino
al suo lavoro, Marcovaldo passava sotto il verde d’una piazza alberata, un
quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie. Alzava
l’occhio tra le fronde degli ippocastani, dov’erano più folte e solo lasciavano
dardeggiare gialli raggi nell’ombra trasparente di linfa, ed ascoltava il
chiasso dei passeri stonati ed invisibili sui rami. A lui parevano usignoli; e
si diceva: «Oh, potessi destarmi una volta al cinguettare degli uccelli e non
al suono della sveglia e allo strillo del neonato Paolino e all’inveire di mia
moglie Domitilla!» oppure: «Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a questo
fresco verde e non nella mia stanza bassa e calda; qui nel silenzio, non nel
russare e parlare nel sonno di tutta la famiglia e correre di tram giù nella
strada; qui nel buio naturale della notte, non in quello artificiale delle
persiane chiuse, zebrato dal riverbero dei fanali; oh, potessi vedere foglie e cielo
aprendo gli occhi!» Con questi pensieri tutti i giorni Marcovaldo incominciava
le sue otto ore giornaliere – più gli straordinari – di manovale non
qualificato.
C’era, in un angolo
della piazza, sotto una cupola
d’ippocastani, una panchina appartata e seminascosta. E Marcovaldo l’aveva
prescelta come sua. In quelle notti d’estate, quando nella
camera in cui dormivano in cinque non riusciva a prendere sonno, sognava la
panchina come un senza tetto può sognare il letto d’una reggia. Una notte,
zitto, mentre la moglie russava ed i bambini scalciavano nel sonno, si levò dal
letto, si vestì, prese sottobraccio il suo guanciale, uscì e andò alla piazza. Là
era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto di quegli assi d’un legno –
ne era certo – morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso
del suo letto; avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli
occhi in un sonno riparatore d’ogni offesa della giornata.
Il fresco e la pace c’erano,
ma non la panca libera. Vi sedevano due innamorati, guardandosi negli occhi.
Marcovaldo, discreto, si ritrasse. «È tardi, –pensò, – non passeranno mica la
notte all’aperto! La finiranno di tubare! »
Ma i due non tubavano
mica: litigavano. E tra due innamorati un litigio non si può dire mai a che ora
andrà a finire.
Lui diceva: – Ma tu
non vuoi ammettere che dicendo quello che hai detto sapevi di farmi dispiacere
anziché piacere come facevi finta di credere? Marcovaldo capì che sarebbe
andata per le lunghe.
– No, non l’ammetto, –
rispose lei, e Marcovaldo già se l’aspettava.
– Perché non
l’ammetti?
– Non l’ammetterò mai.
«Ahi», pensò
Marcovaldo. Col suo guanciale stretto sotto il braccio, andò a fare un giro.
Andò a guardare la luna, che era piena, grande sugli alberi e i tetti. Tornò
verso la panchina, girando un po’ al largo per lo scrupolo di disturbarli, ma
in fondo sperando di dar loro un po’ di noia e persuaderli ad andarsene. Ma
erano troppo infervorati nella discussione per accorgersi di lui.
– Allora ammetti?
– No, no, non lo
ammetto affatto! – Ma ammettendo che
tu ammettessi?
– Ammettendo che
ammettessi, non ammetterei quel che vuoi farmi ammettere tu! Marcovaldo tornò a
guardare la luna, poi andò a guardare un semaforo che c’era un po’ più in là.
Il semaforo segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad accendersi e
riaccendersi. Marcovaldo confrontò la luna e il semaforo. La luna col suo
pallore misterioso, giallo anch’esso, ma in fondo verde e anche azzurro, e il
semaforo con quel suo gialletto volgare. E la luna, tutta calma, irradiante la
sua luce senza fretta, venata ogni tanto di sottili resti di nubi, che lei con
maestà si lasciava cadere alle spalle; e il semaforo intanto sempre lì accendi
e spegni, accendi e spegni, affannoso, falsamente vivace, stanco e schiavo.
Tornò a vedere se la ragazza
aveva ammesso: macché, non ammetteva, anzi non era più lei a non ammettere, ma
lui. La situazione era tutta cambiata, ed era lei che diceva a lui: – Allora,
ammetti? – e lui a dire di no. Così passò mezz’ora. Alla fine lui ammise, o
lei, insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene tenendosi per mano.
Corse alla panchina,
si buttò giù, ma intanto, nell’attesa, un po’ della dolcezza che s’aspettava di
trovarvi non era più nella disposizione di sentirla, e anche il letto di casa
non lo ricordava più così duro. Ma queste erano sfumature, la sua intenzione di
godersi la notte all’aperto era ben ferma: sprofondò il viso nel guanciale e si
dispose al sonno, a un sonno come da tempo ne aveva smesso l’abitudine.
Ora aveva trovato la
posizione più comoda. Non si sarebbe spostato d’un millimetro per nulla al
mondo. Peccato soltanto che a stare così, il suo sguardo non cadesse su di una
prospettiva d’alberi e ciclo soltanto, in modo che il sonno gli chiudesse gli
occhi su una visione di assoluta serenità naturale, ma davanti a lui si
succedessero, in scorcio, un albero, la spada d’un generale dall’alto del suo
monumento, un altro albero, un tabellone delle affissioni pubbliche, un terzo
albero, e poi, un po’ più lontano, quella falsa luna intermittente del semaforo
che continuava a sgranare il suo giallo, giallo, giallo. Bisogna dire che in
questi ultimi tempi Marcovaldo aveva un sistema nervoso in così cattivo stato
che, nonostante fosse stanco morto, bastava una cosa da nulla, bastava si
mettesse in testa che qualcosa gli dava fastidio, e lui non dormiva. E adesso
gli dava fastidio quel semaforo che s’accendeva e si spegneva. Era laggiù,
lontano, un occhio giallo che ammicca, solitario: non ci sarebbe stato da farci
caso. Ma Marcovaldo doveva proprio essersi buscato un esaurimento: fissava
quell’accendi e spegni e si ripeteva: «Come dormirei bene se non ci fosse
quell’affare! Come dormirei bene! » Chiudeva gli occhi e gli pareva di sentire
sotto le palpebre l’accendi e spegni di quello sciocco giallo; strizzava gli
occhi e vedeva decine di semafori; li riapriva, era sempre daccapo.
S’alzò. Doveva mettere
uno schermo tra sé e il semaforo. Andò fino al monumento del generale e guardò
intorno. Ai piedi del monumento c’era una corona d’alloro, bella spessa, ma
ormai secca e mezzo spampanata, montata su bacchette, con un gran nastro
sbiadito: «I Lancieri del Quindicesimo
nell’Anniversario della Gloria». Marcovaldo s’arrampicò sul piedestallo,
issò la corona, la infilò alla sciabola del generale.
Il vigile notturno
Tornaquinci in perlustrazione attraversava la piazza in bicicletta; Marcovaldo
s’appostò dietro la statua. Tornaquinci aveva visto sul terreno l’ombra del
monumento muoversi: si fermò pieno di sospetto. Scrutò quella corona sulla sciabola, capì che
c’era qualcosa fuori posto, ma non sapeva bene che cosa. Puntò lassù la luce
d’una lampadina a riflettore, lesse: «I Lancieri del Quindicesimo nell’Anniversario
della Gloria», scosse il capo in segno d’approvazione e se ne andò.
Per lasciarlo
allontanare, Marcovaldo rifece il giro della piazza. In una via vicina, una
squadra d’operai stava aggiustando uno scambio alle rotaie del tram. Di notte,
nelle vie deserte, quei gruppetti d’uomini accucciati al bagliore dei saldatori
autogeni, e le voci che risuonano e poi subito si smorzano, hanno un’aria
segreta come di gente che prepari cose che gli abitanti del giorno non dovranno
mai sapere. Marcovaldo si avvicinò, stette a guardare la fiamma, i gesti degli
operai, con un’attenzione un po’ impacciata e gli occhi che gli venivano sempre
più piccoli dal sonno. Cercò una sigaretta in tasca, per tenersi sveglio, ma
non aveva cerini. – Chi mi fa accendere? – chiese agli operai. – Con questo?
–disse l’uomo della fiamma ossidrica, lanciando un volo di scintille.
Un altro operaio
s’alzò, gli porse la sigaretta accesa. – Fa la notte anche lei?
– No, faccio il
giorno, – disse Marcovaldo.
– E cosa fa in piedi a
quest’ora? Noi tra poco si smonta.
Ritornò alla panchina.
Si sdraiò. Ora il semaforo era nascosto alla sua vista; poteva addormentarsi,
finalmente.
Non aveva badato al
rumore, prima. Ora, quel ronzio, come un cupo soffio aspirante e insieme come
un raschio interminabile e anche uno sfrigolio, continuava a occupargli gli
orecchi. Non c’è suono più struggente di quello d’un saldatore, una specie
d’urlo sottovoce. Marcovaldo, senza muoversi, rannicchiato com’era sulla panca,
il viso contro il raggrinzito guanciale, non vi trovava scampo, e il rumore
continuava a evocargli la scena illuminata dalla fiamma grigia che spruzzava
scintille d’oro intorno, gli uomini accoccolati in terra col vetro affumicato
davanti al viso, la pistola del saldatore nella mano mossa da un tremito
veloce, l’alone d’ombra intorno al carrello degli attrezzi, all’alto castello
di traliccio che arrivava fino ai fili. Aperse gli occhi, si rigirò sulla
panca, guardò le stelle tra i rami. I passeri insensibili continuavano a
dormire lassù in mezzo alle foglie. Addormentarsi come un uccello, avere un’ala
da chinarci sotto il capo, un mondo di frasche sospese sopra il mondo
terrestre, che appena s’indovina laggiù, attutito e remoto. Basta cominciare a
non accettare il proprio stato presente e chissamai dove s’arriva: ora
Marcovaldo per dormire aveva bisogno d’un qualcosa che non sapeva bene neanche
lui, neppure un silenzio vero e proprio gli sarebbe bastato più, ma un fondo di
rumore più morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto d’un
sottobosco, o un mormorio d’acqua che rampolla e si perde in un prato.
Aveva un’idea in testa
e s’alzò. Non proprio un’idea, perché mezzo intontito dal sonno che aveva in
pelle in pelle, non spiccicava bene alcun pensiero; ma come il ricordo che là intorno ci fosse qualche cosa connessa all’idea dell’acqua, al suo
scorrere garrulo e sommesso.
Difatti c’era una
fontana, lì vicino, illustre opera di scultura e d’idraulica, con ninfe, fauni,
dèi fluviali, che intrecciavano zampilli, cascate e giochi d’acqua. Solo che
era asciutta: alla notte, d’estate, data la minor disponibilità dell’acquedotto,
la chiudevano. Marcovaldo girò lì intorno un po’ come un sonnambulo; più che
per ragionamento per istinto sapeva che una vasca deve avere un rubinetto. Chi
ha occhio, trova quel che cerca anche a occhi chiusi. Aperse il rubinetto:
dalle conchiglie, dalle barbe, dalle froge dei cavalli si levarono alti getti,
i finti anfratti si velarono di manti scintillanti, e tutta quest’acqua suonava
come l’organo d’un coro nella grande piazza
vuota, di tutti i fruscii e gli scrosci che può fare l’acqua messi insieme. Il
vigile notturno Tornaquinci, che ripassava in bicicletta nero nero a mettere
bigliettini sotto gli usci, al vedersi esplodere tutt’a un tratto davanti agli
occhi la fontana come un liquido fuoco d’artificio, per poco non cascò di
sella.
Marcovaldo, cercando
d’aprir gli occhi meno che poteva per non lasciarsi sfuggire quel filo di sonno
che gli pareva d’aver già acchiappato, corse a ributtarsi sulla panca. Ecco,
adesso era come sul ciglio d’un torrente, col bosco sopra di lui, ecco,
dormiva.
Sognò un pranzo, il
piatto era coperto come per non far raffreddare la pasta. Lo scoperse e c’era
un topo morto, che puzzava. Guardò nel piatto della moglie: un’altra carogna di
topo. Davanti ai figli, altri topini, più piccoli ma anch’essi mezzo
putrefatti. Scoperchiò la zuppiera e vide un gatto con la pancia all’aria, e il
puzzo lo svegliò.
Poco distante c’era il
camion della nettezza urbana che va la notte a vuotare i tombini dei rifiuti.
Distingueva, nella mezzaluce dei fanali, la gru che gracchiava a scatti, le
ombre degli uomini ritti in cima alla montagna di spazzatura, che guidavano per
mano il recipiente appeso alla carrucola, lo rovesciavano nel camion, pestavano
con colpi di pala, con voci cupe e rotte come gli strappi della gru: – Alza…
Molla… Va’ in malora… – e certi cozzi metallici come opachi gong, e il
riprendere del motore, lento, per poi fermarsi poco più in là e ricominciare la
manovra.
Ma il sonno di
Marcovaldo era ormai in una zona in cui i rumori non lo raggiungevano più, e
quelli poi, pur così sgraziati e raschianti, venivano come fasciati da un alone
soffice d’attutimento, forse per la consistenza stessa della spazzatura stipata
nei furgoni: ma era il puzzo a tenerlo sveglio, il puzzo acuito da
un’intollerabile idea di puzzo, per cui anche i rumori, quei rumori attutiti e
remoti, e l’immagine in controluce dell’autocarro con la gru non giungevano
alla mente come rumore e vista ma soltanto come puzzo. E Marcovaldo smaniava,
inseguendo invano con la fantasia delle narici la fragranza d’un roseto.
Il vigile notturno
Tornaquinci si sentì la fronte madida di sudore intravedendo un’ombra.
umana correre carponi per un’aiola, strappare
rabbiosamente dei ranuncoli e sparire. Ma pensò essersi trattato o d’un cane,
di competenza degli accalappiacani, o d’un’allucinazione, di competenza del
medico alienista, o d’un licantropo, di competenza non si sa bene di chi ma
preferibilmente non sua, e scantonò.
Intanto, Marcovaldo,
ritornato al suo giaciglio, si premeva contro il naso il convulso mazzo di ranuncoli,
tentando di colmarsi l’olfatto del loro profumo: poco ne poteva però spremere
da quei fiori quasi inodori; ma già la fragranza di rugiada, di terra e d’erba
pesta era un gran balsamo. Cacciò l’ossessione dell’immondizia e dormì. Era
l’alba.
Il risveglio fu un
improvviso spalancarsi di ciclo pieno di sole sopra la sua testa, un sole che
aveva come cancellato le foglie e le restituiva alla vista semicieca a poco a
poco. Ma Marcovaldo non poteva indugiare perché un brivido l’aveva fatto saltar
su: lo spruzzo d’un idrante, col quale i giardinieri del Comune innaffiano le
aiole, gli faceva correre freddi rivoli giù per i vestiti. E intorno
scalpitavano i tram, i camion dei mercati, i carretti a mano, i furgoncini, e
gli operai sulle biciclette a motore correvano alle fabbriche e le saracinesche
dei negozi precipitavano verso l’alto, e le finestre delle case arrotolavano le
persiane, e i vetri sfavillavano. Con la bocca e gli occhi impastati, stranito,
con la schiena dura e un fianco pesto, Marcovaldo correva al suo lavoro.