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Primo maggio su commissione

Fa freddo ancora. Niente primavera, ancora.

È sempre stato così il primo maggio. Incerto.

Non è vero, ce ne sono stati di diversi.

Ci è tornato in mente insieme, stamattina, mentre me lo dicevi, che credevo essermelo scordato, e invece c’era per intero, e mi hai detto ti ricordi? E ti ricordi? E ti ricordi?

E poi mi hai detto, me la scrivi una cosa su quel primo maggio?

Io ti ho detto che secondo me era il 25 aprile, ma tu dici che era il primo maggio. Fa differenza?

Avevamo una Panda senza il sedile posteriore. Chi stava seduto dietro, e io ci stavo, seduta dietro, pareva affondato dentro a una tinozza, con le gambe scomposte.

La Panda era rossa e il cambio grattava. Era una Panda in prestito.

Il primo maggio siamo andati al Circo Massimo e a Piazza Venezia, ma non ricordo se prima al Circo Msssimo e poi a Piazza Venezia o viceversa.

Non mi ricordo se abbiamo parcheggiato, ma mi ricordo scale e sole, sole e profumi.

Io quel profumo di Roma non l’ho sentito più. L’odore pieno, di cose al sole, pietre, capelli, io e te mano nella mano, avevo un maglione di cotone bianco con dei fiocchi rosa, come avevo potuto comprare una cosa tanto orribile, e dei ricci grossi su una testa da leone, che saltavano e si muovevano, e anche tu, una testa enorme di capelli a terrazza, ma ridevamo, e quegli altri due dietro, ma noi li distanziavamo, che cosa mancava alla felicità?

E poi mancava un mese alla laurea, questo lo so, la tua e la mia, e con la Panda rossa tutti e quattro giravamo per Roma, e il sole, e quell’anno Masini cantava nella radio di ragazze così e così, e noi ridevamo, che eravamo proprio convinte si potesse essere ragazze poco serie, la radio sempre sintonizzata sulla musica italiana e poi dimmi dove sei che ogni tanto mi oriento.

Che schifo di musica, diceva quell’altro seduto accanto nella tinozza, ma mancava un mese alla laurea, c’era caldo, mica come adesso, che al primo maggio la stagione è lontana, sole e tutta quella luce, neppure quella luce l’ho più vista.

Poi cucinammo una strana pasta nell’appartamento di Piazza Bologna, eravamo cinque, sei, non me lo ricordo. Quello della tinozza disse buona, ma ora devo andare e ci vediamo qui stasera.

E noi tre uscimmo ancora e tutto il Muro Torto, e sole, e caldo, io sola nella tinozza senza sedile, e poi dicemmo torniamo a casa, lo aspettiamo e poi ancora Panda.

Si fece tardi e quello non veniva, non c’erano mica i telefoni che chiami e solleciti, controlli, spingi, alletti. Aspettammo e il profumo di Roma di sera entrava attraverso la tenda.

C’era una festa, ma io volevo aspettare ancora e poi però, dopo tanto aspettare, andammo via, siete sicuri che non c’è più tempo?, e andammo alla festa di uno che adesso ho pudore persino a pensarlo, che stavamo lì, siete sicuri che siamo invitati proprio noi, con questi capelli e i pantaloni dell’Upim, e il tizio ci aprì e disse, prendete il vino là in fondo, e conobbi Paolo che insegnava all’università e il suo compagno che era chirurgo a Madrid e si vedevano quando i voli di trent’anni fa lo consentivano e dissero, stai tranquilla, anche a distanza l’amore vale.

Vale, dissi, ma non resta.

Ce la fa, ce la fa.

Tutti avevano occhiali da sole anche se era sera e stavamo in una casa al chiuso e Andrea disse delle cose su Cracovia e su un film che aveva fatto, poi andammo via. Un giro al Gianicolo, senza scendere dalla Panda, il profumo di Roma di sera che era diventato Roma di notte, quel profumo di Roma non l’ho sentito più, e poi rientrammo.

L’inquilino dell’appartamento disse che chi aspettavo era arrivato un attimo dopo che eravamo andati via. Pensai che dovevo imparare. Non si dovrebbe mai mollare, a averne la forza. Bisognerebbe insistere, pure nell’attesa, a averne il coraggio.

Trovai un biglietto sul cuscino, non l’ho conservato. Un messaggio senza telefono.

Era entrato uno spicchio di Roma dalla finestra.

Io lo so adesso dove sei, lo so dove siete tutti quanti. Dentro quel primo maggio di caldo caldo, di profumi e speranze, che così non ce ne sono più.

Il resto ce l’ha fatta, per la parte migliore, come si disse quella notte. Solo per la parte migliore.

Va bene, Maria Pia? C’è altro?

Imbrogli pugliesi

Metti che esiste un circolo letterario.

Metti la riunione per gli auguri pasquali del circolo letterario Simenon & C. di cui fai parte. Non ci vuoi andare, perché pioviggina e poi bisogna ordinare l’agnello per Pasqua, ma non la puoi usare come scusa, perché l’agnellomangiatopercaritànoino, e poi sei quella che non rispetta il regolamento interno e allora ci devi andare. Anche perché, oltre agli auguri, inizia la selezione dei manoscritti arrivati on line per il concorso “Parole in giallo”, e allora ci vai.

Villetta nella campagna toscana, tazze di porcellana e scone che manco a Londra.

Metti che la riunione comincia, tutti presenti. Sono arrivati tanti manoscritti, c’era un lasso di tempo a cronometro, inviare il testo dalle alle, chi entra entra e si vince una pubblicazione con la tipografia locale. Sono arrivati moltissimi manoscritti dalla Puglia.

Il direttore della banca dice, e si sa.

Che intendi, chiedo.

L’area manager della Allsophia informatica s.r.l. dice, senza girarsi verso di me, spalle ritte, imbrogli, e agita la mano, come rimescolasse  un pastone, un secchio di malta,  la gira per bene, ci va nel profondo.

Dico che questa affermazione mi dispiace.

Qualcuno propone di chiedermi scusa, l’area manager, quella della mano che impasta a grandi cerchi, dice, non è questa la sede.

Per chiedere scusa tu o per dire che mi dispiace io?

Ma per favore, non era diretto a te.

E ci credo, ma è la prima volta, dopo quasi trent’anni da questi parti, che un commento del genere mi tocca. Che non lo so che ci sono imbrogli, ma non era dappertutto?

Sarà l’età.

Il lavoro di verifica dei manoscritti è lungo, e è solo l’inzio. Finiamo dopo tre ore, ho mangiato quattro tramezzini al cetriolo, che, appunto, manco a Londra.

Mi è dispiaciuto, nell’ordine:

  1. Che ovunque è saltato il tappo, quello famoso, e che MO (PUGLIESE!) tutti vomitano quello che tenevano stipato, per creanza e per convinzione, in fondo in fondo;
  2. Che altri meridionali presenti alla riunione del circolo letterario hanno pigolato senza protestare;
  3. Che chi pubblica bellissimi pamphlet, a spese del circolo letterario in questione, contro nemici lontani, che tanto non leggeranno mai invettive e legittime filippiche, non abbia detto alla socia accanto, ma dai, questo è un pregiudizio, cheneso, uno steretipo, una leggera vena di campanilismo, per non farla esagerata. Poi di fronte a lei, almeno dillo a parte;
  4. Che io ho perso l’occasione per essere più leggera (LA MAGNAGRECIA!) e meno permalosa, e altri di stare zitti.

MO lo dico, visto il prossimo rinnovo delle nomine nel circolo letterario Simenon & C., se mai dovessero chiedermi di assumere l’incarico di tesoriere, di addetto alle pubbliche relazioni del circolo letterario Simenon & C., di addetto stampa, di curatore di collana, dirò che no, sono pugliese e faccio imbrogli, per carità.

Ho comprato l’agnello.

Lam e ritorni (2)

Non so se sia peggio aspettare l’autobus col caldo oppure col freddo. Se, senza pensilina, ti trafigge un sole cattivo che manco ai tropici peggiori o se ti bagna la pioggia con vento delle sei e cinquantantacinque.

I ritardi della Lam Rossa sono ormai leggenda. Quando arrivi alla fermata e c’è un altro tizio qualunque, sconosciuto, mai visto, incontrato due volte o mille, stessa ora stessa corsa, la tiritera anche oggi è che l’autobus ha saltato due corse, ieri abbiamo aspettato quaranta minuti, il demente dell’autista ha tirato dritto, non si è fermato, e sghignazzava, lo stronzo. Niente considerazioni sul tempo o sulla politica. La Lam.

C’è una ragazza che aspetta e aggancia chiunque per lamentarsi delle meraviglie della Lam Rossa, avrà vent’anni, e manco buongiorno, dice, ma la Lam la sta aspettando da stanotte, ci ha dormito, alla pala. E poi gli zingari e i furti. E il tizio con la sindrome di Tourette che ti apostrofa in ogni maniera, fai schifo, comunica a tutti, e non dovrebbero farlo salire, e i posti in piedi, e certo, se ne saltano tre di corse stiamo stipati come maiali. Non la guardo mai negli occhi, che, se incrocia lo sguardo, è finita.

Non capisco bene come funzioni la cosa, ma i ritardi ci sono, è innegabile. La Lam è, non considerando l’acronimo leggero e moderno, niente di più che una circolare. Parte da un punto e a quello deve ritornare. Che se sali qui, fai il giro turistico della città, passi per la stazione, una visita all’ospedale, qui devi tornare. La stessa macchina. Se una sera non hai di meglio da fare, la solitudine ti prende, la casa è stretta e al cinema non c’è niente, un giro in Lam potrebbe essere l’alternativa ideale.

Quindi se ti metti da questa parte e vedi la Lam dall’altro lato della strada, dodici minuti al massimo e la stessa deve passare a prenderti, se non è intanto arrivata quella della corsa precedente.

Così è tutto un ne ho viste salire due, tre, non ne è scesa neppure una, che significa che la gente sta lì, alla fermata, da quindici, trenta, quarantacinque minuti, guardando nel vuoto, in fondo, che spunti, venendo in giù, una di quelle prima salite. Un andirivieni che, però, da qualche parte si inceppa.

Ciò che va, non ritorna. O, per essere precisi, non tutto quello che va, ritorna, o almeno non nei tempi previsti.

E allora ieri, che stavamo a studiare l’oscillazione degli autobus, quelli che andavano e nessuno che ne tornava, una tizia ha detto, colpa dei francesi, si sono comprati l’azienda, diminuiscono il personale e le macchine vecchie non le rimpiazzano. Ne partono un numero, ma ne circolano, di fatto, di meno, le fermano al deposito, questioni di tagli e niente rispetto. Peggio, ha detto un altro, c’è qualcosa che non quadra. È come se da qualche parte le macchine sparissero.

Inghiottite, ho detto.

Appunto.

Ho aspettato la Lam Rossa, che a un certo punto è arrivata e ha caricato il mucchio di gente. Sono andata a lavorare. Piovigginava. Sono uscita presto. Ho ripreso la Lam e ho pensato, ho due possibilità. Ci resto sopra, faccio il giro e vediamo dove finisce.

Oppure prendo l’auto e ne seguo una a caso, partendo però dal punto che so io, quello davanti al bar, dopo il cimiterino, quando le ruote si inabissano sul viale, proseguono e poi non se ne sa più nulla.

Dalla pioggia eravamo passati a una nebbia stupida, pioggia condensata, lattigine appiccicosa.

Di scendere dall’autobus non avevo voglia. Mi stavo assopendo. Sarei rimasta sulla Lam e avrei concluso il viaggio per vedere dove andava a finire. Eppure, mano a mano che si procedeva, la gente scemava. Erano neppure le undici, studenti ormai in classe, casalinghe a casa, lavoratori in ufficio e pochi turisti per la Torre, dove in effetti è sceso l’ultimo passeggero. Siamo rimasti l’autista e io.

A me, nonostante ci vada dietro, in un’infantile ricerca sadica, le cose di mistero piacciono poco o mi piacciono protette. Adesso questa Lam prosegue, cimitero piccolo, cimitero grande, l’autista, io e il buco nero in fondo.

Sono scesa. Ho preso la macchina e mi sono appostata di nuovo alla fermata, l’incriminata, l’ultima prima dell’oblio, del non ritorno. Quella che precede il triangolo delle Bermude.

È andata che ho aspettato venti minuti. Nella radio c’era brutta musica. Stavo con le quattro frecce dietro lo stallo giallo della sosta. La Lam è arrivata, si è fermata, un tizio con la valigia se n’è andato verso il parcheggio.

Ho seguito la Lam. Le 11.42.

In certi periodi, il ritrovarsi tra lo sbigottito e l’incredulo per quello che sta intorno, potrebbe avere come medicina un inseguimento alla Lam rossa, con un’andatura variabile.

La Lam correva, sul viale del cimitero. Ha inchiodato alla fermata, mentre pioveva più fitto. Comunque la corsa continuava e l’autobus davanti c’era ancora.

Penso, mentre inseguo, cose a caso. Tipo che certe,che dovrebbero cambiare, stanno immobili e cose che invece farebbero bene a restare dove sono, cambiano. Il meccanismo non funziona come vorremmo, è invertito. Cose che cambiano e non vorresti. Un meccanismo rotto tipo Lam Rossa, troppo facile il parallelo. E tu stai a spingere, spingere, e madonna che fatica.

La Lam proseguiva. Alla farmacia non si è fermata. Ha girato verso Viareggio, non credevo passasse da lì, un itinerario imprevisto, avevo sempre immaginato, la sua, una corsa di pura città.

Certo che, a pensarci, non era tanto normale che stavo inseguendo una Lam, credendo chissà che cosa, o forse col bisogno, prima, di scoprire che era tutta responsabilità umana, il disservizio, e, poi, di litigare a morte con qualcuno, litigare per email con la sede legale, di persona, sfogare quella rabbia da immobilità/mobilità invertite, e con chi di meglio puoi prendertela se non con gli autisti della Lam, tanto loro, di norma, non ascoltano, non è colpa nostra, fate reclamo, telefonate al numero verde, e spesso manco rispondono. Ottimi pungiball per periodi difficili.

Aveva rallentato e camminava, fuori città, senza intoppi e senza fermate. E infatti, fino a allora, non c’era stato niente a fagocitare le macchine e nessun ostacolo. Ma allora perché i ritardi? Erano passati sei minuti, le 11.48. Tra altri otto avremmo dovuto essere tornati lì dove eravamo partiti.

Nella macchina si stavano appannando i vetri. Come una svitata, stavo inseguendo una Lam per vedere se qualcosa la ingoiava, seguivo un autobus alla ricerca di fantasmi. E del rimedio allo sconforto, che mi era preso all’improvviso, per cose che procedono verso  direzioni proprie, opposte a quelle dei nostri desideri.

Così la Lam stava finendo il viale parallelo e già virava verso l’interno. Stava tornando in città. Pioveva fortissimo, non era previsto, piuttosto avevano detto vento freddo, ma non quell’acqua mista a latte schiumoso in polvere.Ci vedevo poco. Auto in seconda fila al panificio. Auto che invadevano l’altra carreggiata per evitare quelle in seconda fila. Tergiscristalli lenti. L’autobus giallo e rosso sempre davanti, rallentava anche lui, alzava l’acqua che in pochi minuti si era raccolta nelle buche.

Qualcosa stava attraversando la strada. Un’ombra, un sacco, un ingombro, non lo avevo visto. Ho inchiodato e piano, pianissimo, come impemeabile alla bufera, ho visto che era Belfagor, ai piedi certe pantofoline di pezza rosse, una busta di plastica bianca in testa, e portava ritto un cartello, un pezzo di cartone, forse un imballo da merendine, ci aveva scritto

LE COSE SE LA SBRIGHINO SENZA DI NOI. NO ALLA PROSTITUZIONE.

Tanto che non la vedevo, sempre più matta. Belfagor che dorme nel vicolo dietro casa, che parla a un cellulare immaginario, l’ereditiera defraudata. So di aver pensato, per un attimo, guarda un po’, persino i verbi corretti. Ma poi lei era lenta, tanto lenta, si trascinava, mi guardava da sotto il cappuccio con i soliti mezzi occhi e lo stava facendo apposta, mi stava bloccando mentre la Lam in fondo, la intravedevo, si perdeva in un fumo improvviso, da tubi di scappamento o da prestigiatori, fumo di nebbia, latte e pioggia. In fondo vedevo l’ultima striscia dell’autobus che andava, Belfagor teneva in alto il cartello, lo stava agitando verso di me, come un motto di protesta, a dire leggilo!, ma io volevo vedere soltanto dove andava a finire la Lam, sì ho capito, vai!, vai!, ma la Lam l’avevano già ingoiata, là in fondo, la curva o la fossa maledetta. Non avrei mai saputo la sua fine, ma mai più avrei avuto il coraggio di comportarmi da svitata.

Belfagor sogghignava e in quel momento l’ho odiata. Con tutto il suo cartello e le frasi a arte da Baci Perugina. Non mi aveva risolto niente, né le scomparse della Lam Rossa né lo sconforto dovuto a meccanismi mal funzionanti.



Il bolide

Mi danno dell’asociale spesso. In fila alle Poste, sul treno, nei tempi d’attesa, insomma, non amo particolarmente socializzare; porto un libro con me e, aspettando, leggo.

Venerdì decido di andare dal medico. Sala d’attesa come ce ne sono tante, piuttosto spoglia, sulle pareti quadri dozzinali, riviste poco interessanti su un tavolinetto. Una decina di persone davanti, tutte piuttosto agée. Tiro fuori il mio libro, mentre tra loro parlano incessantemente di malattie e acciacchi: è una caratteristica degli anziani, l’ho notato tante volte, fanno a gara a chi ha più malanni, come se in palio ci fosse un ambito premio; vince chi dimostra di averne di più e più gravi.

Leggo, ma con un orecchio rivolto alla conversazione: risulto asociale, è vero, ma sono curiosa, non dei fatti altrui, mi incuriosiscono le persone, mi diverto a associare i volti ai pensieri e al loro modo di essere.

Si apre la porta, una signora sicuramente ultraottantenne viene salutata da quasi tutti i presenti.

Oh Lidia, vieni a sede’ qui. Come mai sei venuta così tardi?

Sembrano alle panchine del parco…

Oh Lidia, sei sola oggi? Non ce l’hai er nipote?

Dalla faccia della signora, però, non traspare niente di buono. L’espressione preoccupata, qualcosa è andato storto nella giornata.

Seeee er nipote, un mi fa’ parla’! Oggi un ho potuto, capirai, mi s’è rotto il bolide!

… il bolide?!?

Bah… una scocciatura di nulla!

Una scocciatura il bolide che si rompe? A questa età? Hai capito la signora?!

O quant’è che ce l’avevi?

Una decina d’anni tutti. Ma andava bene eh! Poi ha cominciato a accendessi una lucina rossa, s’accendeva e si spengeva, s’accendeva e si spengeva, sembrava l’albero di Natale… poi un s’è accesa più. Insomma, il bolide è fermo da tre giorni.

Che buffo, non ce la vedo la signora alla guida, che so, di una Lamborghini Diablo. Però che meraviglia! A questa età, appassionata di auto… Finalmente una che non parla di acciacchi e malattie, ma di bolidi!! Incredibile…

Mi appassiono alla conversazione. Il libro aperto a pagina quarantadue da dieci minuti.

Oh Lidia, a me il bolide mi s’è rotto l’anno passato. Un pianto e un lamento e s’è dovuto ricompra’…

Ah, è un vizio… anche quest’altra signora… Mah, sarà una moda del quartiere.

Oh, vedrai, un si pole mica sta’ col bolide rotto!

Ma hai provato a riparallo?

Seee si spendeva di più che a ricomprallo novo!!

Mah, dipende anche dal bolide… Chissà che auto hanno??

Io l’ho chiamato l’idraulico, ma ha detto che un c’è nulla da fa’…

L’idraulico? Per riparare un’auto, chiamano l’idraulico? Mah… avrà voluto dire il meccanico…

Allora stasera vengono a mette’ quello novo… o bimbi, senz’acqua calda mica ci si po’ sta’!

Peccato. Pensavo di aver trovato un modello a cui ispirarmi in vecchiaia, invece era solo un boiler.

Prima di marzo

Quando seppe che mi piacevano, mi portava gli alberi, non i rami. Li tagliava o glieli regalavano, non lo so. Li caricava sulla Lambretta – la Vespa, dopo qualche anno – e si faceva venti chilometri dal paese. Con l’albero giallo tra i piedi.

Arrivava appena fiorivano, prima che fosse marzo, molto prima della primavera.

Alla porta, entrava prima l’albero e poi lui, ti piacciono, no?, che non era di tante parole.

Gli avevo preparato una torta margherita fatta con le buste. A casa non c’era nessuno.

Mangiavamo con la mimosa stesa sul tavolo, lunga quanto l’intero tavolo.

Che ne facciamo ora? È troppo grande, troppo profumo.

Dividila, con qualcuno.

Mio nonno ce l’aveva come filosofia, dividi quello che hai, fatti un amico.

O portiamola in chiesa.

Gli piaceva la chiesa di Santa Teresa su via Cesare Battisti, lontana, la mimosa la dovevamo trascinare a piedi.

Se il portone era chiuso, ce la lasciavamo appoggiata.

Poi riprendeva la Lambretta – la Vespa, dopo qualche anno – e tornava al paese senza risalire a casa. Mi metteva in mano qualcosa, dividi con tua sorella.

La strada

Parto che è sempre presto. È buio. “Ma dove vai a quest’ora?” mi dicono a casa. Non mi piace arrivare in ritardo e poi metti un contrattempo per strada.

È che mi piace la strada che percorro ogni mattina. Sì la strada, me la voglio godere.  Ti ci vuole mezz’ora per arrivare! – mi dicono. Vero.

Ma volete mettere il paesaggio, sulla strada?

Albeggia: i colori sono ancora pallidi, tra poco, tra qualche chilometro, si sveglieranno anche loro.

Bella la torre di Caprona con questa luce. Quando mi avvicino alla rocca, specie in inverno, è il paesaggio brumoso che circonda il viandante di Caspar D. Friedrich, che viene in mente. Strati di nuvole, nebbia, e in cima la torre,  una prolunga del monte.

Semaforo rosso, menomale sono in anticipo.

Hanno acceso la luce nella casa di fronte, chissà che stanza è, chissà chi ci abita. Mi affascinano le luci nelle case altrui.

Davanti, il mio albero preferito. In autunno si tinge di rosso e dopo, a poco a poco, si spoglia. Lo scorso anno, stessa strada, stessa destinazione, è stata la prima cosa su cui ho posato lo sguardo; me la ricordo quella mattina: un cielo plumbeo che sembrava dovesse precipitarmi addosso e i colori sotto che sembravano esplodere. Le foglie di quell’albero tanto rosse da fare male agli occhi.

Questa strada è un susseguirsi di fotogrammi scattati ogni giorno, da estate a estate: i gialli caldi e chiari che passano al rosso per poi perdersi sui rami brulli su cui rinasce, a primavera, il verde, che pian piano si brucerà al sole della nuova estate.

Il passaggio a livello è chiuso. Va bene, dai, menomale sono in anticipo.

Che luce che c’è stamattina, che pace.

Ci mancava il trattore davanti. Menomale sono in anticipo.

Come sarebbe abitare in questo posto? …sembra accogliente. Si conoscono tutti qui. C’è un  buon odore, di terra, di erba, e di pane. 

Altro semaforo rosso.

Sono quasi arrivata, ancora due curve, l’altro ponticello. Arrivata.  

Menomale sono in anticipo.

Tutto è relativo

Se stasera avessi un blog,

visto che ho giusto il tempo di respirare, stasera, e però questo diario non può essere sospeso per molto, se stasera avessi un blog, riproporrei con alcune modifiche  una cosa scritta e pubblicata tempo fa. È ancora valida per intero pure se non è estate.

E poi c’è un’amica a cui voglio fare compagnia, in questi giorni.

Questi, a Taranto, sono giorni che, come sempre, hanno a che fare con l’acciaieria, le ore prima di qualcosa che riguarda quelli sull’Appia.

Non posso fare a meno di cercarne il segno nella gente, nelle parole scambiate in fila al bancone della macelleria. A me sembra se ne parli poco. Qualche accenno, nessuna ubriacatura, nessun commento fuori posto, nessun fulmine di anatema. Ne sono quasi delusa. Pare siamo disposti a subire il futuro, qualsiasi sia.

Il cielo è velato, uno strato di nuvole di afa. Penso che rispecchi la cronaca, ma è solo caldo remoto e compatto. La città è in bianco e nero.

La sera, scegliamo un bar nuovo in periferia. Tutto bianco, le poltroncine sotto i gazebo a pagoda, i tavoli, le sedie, le candele quadrate, l’insegna che non si distingue, seppellita nel bianco del muro. Il posto si illude di contrastare il grigio opaco del cielo, dei mulinelli di polvere e carte che lo scirocco crea a cinque centimetri da terra.

Ci sediamo fuori. Chiedo un bicchiere di vino bianco, vorrei sapere che etichette avete, o almeno quale vino.

Si infastidiscono, gli altri, quando lo faccio. Dicono che dovrei prendere un vino bianco qualunque, senza tante storie. Ma per me il vino bianco di sera è un’emozione profonda, nel suo gusto rintraccio l’alchimia di ricordi e progetti, anniento l’eccessivo coinvolgimento con le cose, dimentico il caldo, se è caldo, la pioggia, se piove. In un solo bicchiere, magari in due.

Non mi piace tutto il vino bianco, non amo la mineralità corposa dei siciliani, il fruttato deciso dei campani, la tranquillità senza sorprese dei pugliesi. Voglio i vini del nord, maggiore è la lontananza, meglio sto. Altre lingue e luoghi credo mi siano appartenuti, in un’altra vita, il lontano sapore di mele, la clandestinità di rocce e boschi.

Per questo voglio scegliere il vino.

Chiedo, che vini avete?

Il ragazzo mi guarda smarrito, col notes in mano, non lo sa, va a chiedere.

Lo intravedo nel bar, parla con due giovani donne che preparano il buffet. Passano due o tre minuti, mi sento in colpa, gli altri hanno sete, il tramonto ha una supremazia cattiva sui nostri corpi, nessuno viene a prendere le ordinazioni.

Finalmente torna, dice, di scuro abbiamo un primitivo, di chiaro….

Già mi sento male. Menomale si blocca da solo, riflette, non ricorda. Si volta verso l’interno del bar a chiedere soccorso.

Dico, non importa, mi dia quello che ha.

E invece esce una delle ragazze, prego, fa, pure scocciata.

Vorrei un vino bianco del nord, dico.

Ci sono solo vino del Salento. Del nord abbiamo una Falanghina.

La guardo, valuto l’informazione. Non resisto, la Falanghina è di Benevento.

E Benevento è a nord, dice, composta, e del tutto sconcertata.

Giusto.

Mi faccio portare un prosecco.

Somma e totale

Come mai le settimane volano e i mesi sembrano invece anni?

Non è una mia riflessione. Condividevamo una scrivania con cento carte confuse, lui le sistemava, io non so, ma questa cosa che è oggi martedì e la settimana ormai è andata, domani pomeriggio non ci sono, giovedì tu, poi arriva il tecnico della caldaia alle due, gli apri, poi arrivo io, venerdì è l’unico pomeriggio libero, possiamo infilarci tre cose, se le incastriamo bene, e vedere Luciana, che è da prima di Natale che rimandiamo, e menomale che abitiamo a due strade, dal medico per le ricette ci vado in autobus, a fare la spesa sabato mattina, intanto domani finisco alle otto prendo due pizze al ritorno, sì, ma io non ci sarò prima delle nove.

Vedi che in quattro righe è già domenica.

E invece gennaio è stato lunghissimo e pesante con quattro settimane bruciate in un lampo e febbraio non finisce più, anche se oggi è martedì e domani è già sabato.

Come funziona allora la questione? Dove si inceppa il meccanismo veloce/lento/off/on, chiudi gli occhi e passano sette giorni, li riapri e sei ripartito dal primo del mese, in un giorno della marmotta infinito.

Erano le cinque di un pomeriggio di sole, mentre pensavo a questo. L’autobus prendeva tutte le buche, senza evitarne manco una, l’Arno aveva la luce della primavera impaziente.

Come può essere? È la somma che fa il totale, mi viene, cioè metti tanti segmenti leggeri e la retta si fa pesante, alla lunga. Pesante e sconfinata.

Metti 12 gradini X 2 + 6 gradini da salire ogni giorno per almeno 6/7 volte al giorno, metti singoli sacchetti della spesa e hai portato a casa, su quei gradini, mezzo supermercato, che, alla fine, risulta ingombrante. Non so, mi chiedo.

O non è il numero dei gradini e dei sacchetti, ma proprio il gradino, e tutta quella spesa, che non sai se poi ti serve, le verdure fanno bene, la pillola della pressione è finita, la spazzatura da differenziare, passaggi veloci in camere da degenza, le telefonate che non arrivano e neanche il sonno, e quelli che se ne sono andati, e quelli che non si fanno sentire, il cane che abbaia in loop, la tosse, due chili, i moduli, la collezione di candele che se si accendono da sole viene un falò della casa in cima ai 12 gradini X 2 + 6 gradini, e quelli che si fanno sentire ma stanno zitti.

L’autobus svolta sul Ponte di Mezzo. Stasera faccio tardi.

Una ragazza riccia risponde al telefono. Ha i capelli inanellati, sembra mia sorella di anni fa.

Bene, dice, con un sorriso largo bello che adesso le scopre un incisivo appena accavallato all’altro.

Sì, trenta. E chiude.

Non racconta com’è andata, le domande, quanto è durato, se è stata dura, se lo ritiene un risultato giusto.

Solo trenta. Sorride da sola. Controlla dei messaggi e continua a sorridere, a sé, quasi ride, leggera.

Io andavo sui gradini di San Nicola, dopo un esame, quando ancora non si poteva, che il quartiere non era il salotto di adesso, compravo un giornale di moda e un paio di gettoni per dire a mio padre, trenta. E Bari era bellissima, un mare aperto di speranze. Avevo comprato la focaccia da Magda e avevo sempre qualcuno da aspettare, seduta sui gradini, che erano bianchi, bassi, il pomeriggio diventava una sera tiepida, e non c’era nessun posto al mondo migliore per guardare una piazza e la fetta di sole.

Se invece dovevo ripartire, compravo un panino con l’insalata di pollo alla stazione, un lusso, e in treno avrei cominciato a leggere il nuovo libro che mi ero fotocopiata per l’esame successivo, e avevo questo sorriso qua. E non sentivo né caldo né freddo, nessuna fatica delle settimane passate e i mesi volavano, tanto quanto i giorni e le settimane, né più né meno, leggeri, volavano, altro che somme e totali.

E questa ragazza riccia con gli occhi lago che sembra mia sorella sta sorridendo dalla basilica di San Nicola, sono scesa e lei ha proseguito e di certo alla stazione comprerà un panino con l’insalata di pollo, e farà progetti per l’immediato futuro e per quello lontano. Che può succedere, del resto, se non che tutto si avveri, e che tutto prosegua così, trenta, trenta, con le persone immobili dove si immagina che siano e sempre saranno, in un pomeriggio di sole, a febbraio.

Allora non è che per noi l’ingranaggio si inceppa adesso, volta per volta, nel passaggio settimane/mese. Neppure la questione, scontata, che la somma diventi a un tratto più grave dei singoli addendi: il meccanismo si è inceppato tempo fa, una volta per tutte e non l’abbiamo più riparato. Men che meno cambiato, ci vuole tempo, preventivi e coraggio, per cambiare una cosa che tutto sommato va ancora.

Così lo abbiamo oliato, e quello di olio si è impregnato, e intanto si appesantiva, e la stoppa, e un ricambio riciclato, che l’originale costava troppo, invece meglio un ferro da centro demolizioni fetido nella periferia, ma pesa di più, e qualche bullone per tenere insieme lo slegato, e forse dentro c’è acqua da qualche parte, e la ruggine pesa?, e l’aria insufflata perché giri, giri, giri, che a volte proprio non vuole muoversi. Pesa più il meccanismo così assemblato o soffiarci dentro l’aria?

Quindi, come mai le settimane volano e i mesi sembrano invece anni? Metti tanti segmenti leggeri e la retta si fa pesante? Metti tanti gradini e il meccanismo diventa legnoso?

Sai, tesoro mio, non lo so. Però, adesso, con il trenta leggero che esce dal sorriso della ragazza riccia, penso che non sia una questione di numero di gradini, ma di tipo di gradini, della loro direzione. Credo che l’arcano sia da trovare nello sguardo dei gradini: che cosa vedono, dove si affacciano, dove guardi tu, mentre le settimane si fanno mesi.

Per ora solo questo, una faccenda intricata, e amara, che riguarda i gradini di basiliche e case.

Tempi utili

Racconto a quattro mani

È divertente scrivere a quattro mani, vuol dire improvvisare, lasciarsi prendere dalla storia e vedere dove porta. Chi scrive per primo avrà la curiosità di scoprire come va a finire quello che ha concepito e avviato senza poterlo concludere, il secondo dovrà accettare la sfida di immergersi in una vicenda che non ha pensato e arrivare alla parola “fine” in modo coerente, sperando di non deludere le aspettative dell’altro.

Un gioco, il nostro, senza alcuna velleità.

Leggete il racconto, se vi va, e divertitevi a indovinare chi ha scritto cosa.

Scrivetecelo e forse risponderemo: forse, perché da un certo punto in poi le quattro mani si sono talmente intrecciate che anche per noi potrebbe essere complicato ritrovare l’orma di ciascuna.

———

«Quanto tempo abbiamo?»

Piove. Sgocciolano gocce pesanti dalle incerate appese alle sedie. Per certi versil’estate sa essere più bastarda dell’inverno. 

Il tavolo è minuscolo, si muove come per una seduta spiritica scalcagnata. Grondano i tendoni.

La piazzetta è vuota. Le panchine sono vuote. 

«Quanto tempo abbiamo?»

Nina passa l’indice sul vetro ghiacciato, segna una striscia sulla condensa:

«Questo.»

«Il tempo di un bicchiere?»

Nina annuisce appena.

«E siamo venute qui per il tempo di un bicchiere? Se quella stronza ne metteva di più, magari ci stavamo più larghe.»

La cameriera è una giovane slavata, di una mutezza aggressiva.

«Che vino hai ordinato?»

Gea fa una smorfia, come a dire non lo so, non sono vere e proprie spallucce, più una indifferenza sostanziale nei confronti della questione, di tutte le questioni.

«Non hai mai capito niente di vino. Non sopporto chi non si interessa di vino e beve quello che passa. È una questione di approccio generale. Tu, a esempio, bevi quello che passa. Come si può?»

Piove, ma non tantissimo. L’ultimo sole, offuscato dalle nuvole, non si decide a tramontare. Fine estate. La fine dell’estate si fa sentire, il vento, l’acqua dopo le cinque del pomeriggio, il silenzio che prelude all’inverno, stagione spettrale e buia per Gea, confortevole e dolcemente malinconica per Nina.

«Quanto tempo abbiamo? Ah, hai detto il tempo di un bicchiere.»

Nina fissa negli occhi Gea e sta ferma. Torna a guardare nella strada principale due macchine che svoltano dal centro verso il passo o si infilano nel garage sotterraneo dell’hotel a specchi.

Nina prende un sorso. Sente che è acido. Forse è la pressione del clima, del cielo. Il vino è diverso a seconda della pressione. Si augura almeno sia del posto:

«Quindi se non beviamo abbiamo più tempo… se ce lo teniamo, metti, un’ora, e lo facciamo diventare caldo, chissenefrega, abbiamo più tempo.»

«Quanto tempo abbiamo?»

Fa segno alla cameriera, che porti qualcosa da accompagnare.

«Non si può ingoiare a digiuno un vino tanto acido, buca le viscere.»

Quella torna con due cetriolini in una coppetta di vetro.

«Cetriolini, acidi pure loro.»

La cameriera guarda senza sguardo. Come non capisse la lingua, come se non capisse se è davvero un rimprovero. Si allontana e torna con tocchetti di pane e un piattino di formaggio, schegge di formaggio molle. Quindi ha capito.

«E quindi. Potremmo prendere un altro bicchiere. O no, se vuoi che sia salva la norma, guarda, potremmo farci riempire questo fino all’orlo, prima di finirlo. Il tempo di un bicchiere. Ne lascio un dito, meno, stai a guardare, così, un filo in fondo, e la stronza mi riempie questo, senza portarselo. Unico bicchiere.»

Ridacchia.

«Dici che è la soluzione, che può servire?»

«Dimmelo tu.»

«Che luce strana c’è stasera.»

Riverberi opalescenti dentro il locale. Fuori è ancora grigio, ma un grigio pulito, profumato.

Gli sguardi si fanno più solidali.

«Prova a darmi torto! No, non ce la fai.»

Gea socchiude gli occhi, scuote lenta la testa, trattiene l’aria di un respiro. Non fa a tempo a dire niente.

«Non ce la fai… non perché ti manchi il coraggio, ma perché è così, è come dico io.»

«È come dici tu. Quanto tempo abbiamo?»

«Aspettiamo che calmi il vento, aspettiamo che il sole sbuchi da quella nuvola nera.»

«Quando è l’ultima volta che hai riso… con le lacrime agli occhi… per una cazzata?»

Gea cerca nei ricordi, lo sguardo in su. Posa lo sguardo su mille cose attorno a lei, di certo non le vede, guarda i ricordi, li passa in rassegna in ordine confuso, non cronologico. Suo fratello, una tavola con tanti amici seduti attorno, suo padre, la mamma con un orsacchiotto in mano.

«Così indietro devo andare? No, aspetta…»

«Vedi, non te lo ricordi. È passato troppo tempo.»

«A me non piace ridere. Non leggo libri divertenti, non guardo film allegri.»

«Ridere non è una scelta.»

«Neanche vivere.»

«Sarà. Ma ormai ci sei, tanto vale ridere, ogni tanto. Ogni volta che capita. Dobbiamo cercarle le occasioni per ridere. Più spesso.»

«A me basta sorridere. Basterebbe. Più spesso. Quanto tempo abbiamo?»

Sono stata cancellata

Se stasera avessi un blog,

oserei, senza mezze parole, raccontare questo fatto che mi è capitato.

Stamattina mi sono accorta che una mi ha cancellato dai suoi amici Fb. Una tizia,  una conoscente.

La storia è cominciata qualche mese fa, a settembre, per la precisione. Con un messaggio mi chiedeva di cancellarla dai contatti, perché lei non ci riusciva. Firmava la richiesta, nome e cognome.

Non era, non è, una mia amica. Una persona che incontri nel percorso, ci parli, tutto sommato con piacere, una certa sensibilità, anche una buona cultura. Una donna pratica, non mi dispiaceva. Spesso mi aveva chiesto di uscire, per il pranzo, in particolare. Ma lei è un bel po’ più giovane di me, almeno dieci anni, ha un ritmo di vita differente, un lavoro pomeridiano in un’assicurazione, un marito che spesso lavora fuori, un pilota di linea, su e giù non so da dove a dove, due figli che, per buona parte della giornata stanno a scuola e una discreta dose di leggerezza che, purtroppo ho perso, non ho mai avuto, diciamo, manco quando di anni ne avevo pure io dieci fa e le cose erano pure peggio.  Quindi i rapporti con la mia conoscente erano cortesi, non formali, ci siamo raccontate delle cose private, ma circoscritti.

Insomma a settembre questa mi chiedeva di essere cancellata dagli amici, sempre perché, pare, lei non ci riusciva, e soprattutto perché viveva con imbarazzo il fatto che non le mettessi mai un like ai suoi post su fb.

Le ho scritto che si sbagliava, che era un caso, che probabilmente mi sfuggivano, i suoi post; ho insistito, l’ho lusingata, le ho scritto che provavo affetto; è vero, i suoi commenti politici non li condividevo, ma per il resto, le fotografie erano belle.

Lei ha insistito, non apprezzavo neppure i suoi commenti ai miei post.

Mi stavo incartando col cervello, post suoi, post miei, mi piace, non mi piace, ma che è. Alla fine di una estenuante conversazione WhatsApp mentre mi vestivo e dovevo andare a lavorare e alle otto e mezza di mattina faceva già – ancora, visto che era settembre – un caldo assassino, le sparo che Fb per me è un passatempo mentre cuoce la pasta.

Si era placata. Il tempo è passato.

Stamattina, così, folgorata, ho notato che non vedo più i suoi post, le sue foto. Un algoritmo di FB? Sono andata a cercare, manco io so come si fa, a cercare, a cancellare, a taggare, poi, men che meno. Della conoscente manco l’ombra.

Sono stata cancellata, bloccata, bannata, una dichiarazione del tipo, per me sei morta. Il modo l’ha trovato.

La dovevo cancellare io, lo sapevo come si fa, invece di lisciarla, e dai e smetti e su. Lo dovevo fare. Lo posso dire qua?

Ti cancello io, perché questi tizi nuovi che ricopiano i vecchi mai morti, vanno cancellati, io non mi ci mischio, gli aderenti locali interessati alle strade pulite pulite, lavate col detersivo da schiuma dell’oceano, che se cado un giorno e mi rompo il collo, poi si ride.

La dovevo cancellare quando tuonava contro la birra bevuta all’aperto, di sera, nelle piazze: e che sei, mia nonna, che peraltro era più moderna di te, e non diceva che chi beve birra di sera, in pubblico, o, peggio, mangia, alimentando con le briciole i ratti cittadini, è un bandito. Ho bevuto birra all’aperto – Campo dei Fiori, Trinità dei Monti, ti ricordi, Maria Pia, e poi Montmartre, l’ho comprata da un cingalese che trasportava le lattine in una borsa termica, quelle del mare, degli anni settanta, di certo è un reato – e la bevo ancora. Pensa te, mangio anche il gelato.

La dovevo cancellare io. Che con certa gente non mi ci devo mischiare.

Mi dispiace solo che questa conoscente è delle mie parti e proprio non lo digerisco, che i pugliesi si dimenticano chi sono.

Restiamo umani

Da quando la cattiveria e l’ignoranza sono diventate virtù? Da quando sono diventate valori da sbandierare ai quattro venti? Da quando le conoscenze e la cultura altrui sono diventati strumenti denigratori,  sbattuti in faccia per offendere? Da quando l’essere fascista e razzista è motivo di orgoglio supremo?

Sono stati i social a sdoganare questo esercito di replicanti incattiviti e aridi? o piuttosto una diffusa miseria umana, che come sempre accade, ha cercato un capro espiatorio, un poveretto, uno più disgraziato, per potergli vomitare addosso tutta la frustrazione di una vita.

Quando studiavo tutto questo non era ancora iniziato. Negli ambienti studenteschi e fuori da lì, c’erano persone che discutevano, spesso su fronti opposti, ma il dibattito si svolgeva sicuramente su altri piani e con altro stile. Sì certo i fascisti c’erano anche allora, ma erano meno e avevano più timore a palesarsi. Poi c’erano i qualunquisti. Sì i qualunquisti. Tanti. La generazione è questa. Deve essere successo così. A un certo punto, quei qualunquisti si sono tramutati in tuttologi: sociologi, filosofi, storici e, soprattutto, teorici politici. Tutti rigorosamente formati all’ “Università della vita”. Tutti indefessamente impegnati a fare proseliti o, meglio, followers. E ci sono riusciti, perché si sono moltiplicati.

Adesso chiunque si sente autorizzato a dire la sua, urlando in modo becero e arrogante, in un Italiano offeso e sgrammaticato, senza che dietro queste sequenze di parole – non mi sento di chiamarle “ragionamenti” – ci siano fonti attendibili, una motivazione o un’informazione adeguata.

Slogan e anatemi sprigionati da frustrazioni e malesseri personali, che niente hanno a che fare – né tantomeno sono stati generati – dalle disgrazie altrui, dalle tragedie, vere, vissute da povere persone che, come unico torto, hanno avuto quello di nascere nella parte sbagliata del mondo.

Ma l’odio, gratuito, continua a diffondersi, un odio che polarizza l’Italia tutta, da nord a sud. Che spinge tanti, troppi, soldatini ammaestrati a dare fiato e inchiostro a terribili proclami, all’indifferenza più assoluta – quando non è vera e propria soddisfazione – di fronte a centinaia di vite perdute, sogni e pagelle che si inabissano nel mare.

Non credo né ai confini, né ai muri, ma come diceva Vittorio Arrigoni, “credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana”

Quei corpicini smembrati, quelle vite potate ancora prima di fiorire
 saranno un incubo per tutto il resto della mia vita,
e se ho ancora la forza di raccontare della loro fine
 è perché voglio rendere giustizia a chi non ha più voce,
forse a chi non ha mai avuto orecchie per ascoltare.
 
Restiamo umani
(V. Arrigoni)

nebbialuna (1)

            Se stasera avessi un blog

racconterei un fatto che mi è successo ieri mattina in autobus.

Particolare, la vita di autobus. Sono passata dal pendolarismo lungo – ottocento chilometri, poi cento, poi quarantaquattro – a uno a filiera cortissima, tre chilometri. Eppure esco sempre allo stesso orario, o meglio, a quello dei quarantaquattro chilometri. Allora, in auto; oggi, prendo un pullman di città.

In gennaio c’è buio. Così stamattina sono uscita, ma avevo fatto tardi, e quindi non era proprio tanto buio, ma il cielo era diviso esattamente a metà. Da una parte, la luna piena rotonda nel limpido. Luna di mattina invernale. Di là, il fiume ficcato in fondo a un banco di nebbia molliccio umido. Se ne perdevano i confini come la curva delle luci ancora accese sul contorno del lungarno che a un tratto scompariva.

Sono passata in mezzo a due mondi.

Mentre ero seduta, con la colazione che mi ballava nello stomaco – degli autisti di autobus delle sette e zeronove del mattino, e anche degli altri, autisti impietosi, gaglioffi, menefreghisti, spudorati, parlerò in un’altra sessione, che è necessario, per loro, un unico, terribile post –, tra buche e strambate che manco Mascalzone Latino, le solite facce assonnate, i mezzi sorrisi, i cenni di buongiorno, alla fermata di via Mazzini è salita lei. Non è un luogo usuale, per lei, non l’avevo mai vista in centro, ma sempre dalle mie parti. Proprio nel vicolo dietro casa, riparato dal vento d’inverno e pieno d’ombra in estate. Ha fatto un cenno, l’autobus si è fermato e Belfagor è salita. Ne parlo al femminile, ma è tutto da dimostrare.

Una volta ci ho parlato, e mi sembrava che fosse una donna, Belfagor, alta e secca, il viso cotto, le rughe precise, disegnate a mazzi, la voce da vecchia pazza metallica e poco usata, che deve scaldarsi per prendere profondità, forse perché parla poco, anche se, per la verità, quando passa per la via sotto la mia camera da letto, urla da sola, altro che parlare, a un cellulare immaginario tenuto sotto un cappuccio che è una tenda, o un sacco di iuta. Percorre la strada, poi torna indietro, si porta appresso una busta, altre tre o quattro le ha lasciate nel vialetto, parla al telefono immaginario, beve fondi di caffè che recupera, l’ho vista, sul tavolino esterno del bar, i bicchieri usati li lasciano i clienti, lei versa gli avanzi di caffè in uno solo e ci mette sopra anche il coperchio, come nei film americani.

Belfagor, col mantellocappuccio, racconta di essere stata defraudata di un’eredità. Che era una signora e io le credo. Parla con un vocabolario preciso, ricco, anche se senza senso, in maniera concatenata, a scrosci, senza dighe. E quando esco dal cancello, spesso spio che non ci sia, che non la reggo, in certi momenti.

Una volta però il cappuccio, che Belfagor tiene sulla testa anche se è agosto e si squaglia pure il cemento armato, il cappuccio è scivolato via. Belfagor ha i capelli fini e bianchissimi legati in una crocchia non proprio pulita. Gli occhi azzurri, di un celeste acqua grigio. E poi il viso con quelle rughe a mazzi.

A guardarla da vicino non mi sembrò tanto vecchia quanto credevo e le rughe era come fossero finte, un trucco da palcoscenico, un invecchiamento teatrale. Un viso così esagerato e deformato che, pensai, è posticcio, è un makeup, un effetto speciale, lo penso spesso, di alcune persone che fanno apposta a sembrare finte e lo sono, si sono comprate un kit e per ragioni loro si camuffano, si dipingono, insomma, la storia antica della maschera.

Ma ho pensato, vedendo Belfagor, quel giorno al di là del cancello, che era truccata e che Belfagor non era affatto Belfagor.

Ma quel giorno faceva caldo, e anche il parrucchiere del quartiere parlava di lei con naturalità, Belfagor continua a girovagare e dormire qui dietro, col freddo e col caldo, sopra coperte messe insieme a materasso, e se qualche amico viene a trovarci, lei lo ferma e racconta che era un’ereditiera e qualcuno le ha rubato tutto, e gira coi bicchierini di fondi di caffè, una volta le ho comprato dei succhi di frutta e un pacco di Buondì, ma lei ha rifiutato, mi ha detto che lo Stato ci deve pensare, a quelli come lei, troppo facile signora, pensare che i cittadini risolvano tutto, e io ci sono rimasta male, insomma ho pensato che una matta così, che vive per strada, perché mai si doveva truccare.

Stamattina è salita in via Mazzini. Forse ha cambiato zona. Io sono scesa in Piazza Vittorio e lei era ancora nell’autobus, quindi non so dove fin dove abbia proseguito, se alla stazione o più in là. Magari andava verso l’ospedale. Ho sbirciato sotto il cappuccio ancora più lurido, perché quella cosa che lei era truccata e le rughe e le increspature delle guance non erano vere ce l’ho sempre in mente, ma non ci sono riuscita, a vedere per bene. Era buio, nell’autobus, io dovevo scendere e alla fine sono scesa, insieme a me gli alunni delle scuole, mi sono calata il cappello in testa, quell’umido di nebbia non si era diradato.

Da giù mi sono voltata, e lei non aveva scostato il cappuccio, e continuavo a non vederle il viso, ma so che mi ha guardato, una lama attraverso le porte che si chiudevano. Sono certa che ha guardato me, solo me,volontariamente me, e non perché mi abbia riconosciuto come la vicina del succo di frutta. Era un frammento metallico, ti sto guardando, la sai, vero, la ragione?

Questa non è una recensione

Se stasera avessi un blog

scriverei che qualche sera fa, l’aria di vacanza che già si spegneva, una vigilia di Befana freddissima, ho visto il Grande Carro in un cielo tanto limpido quanto gelido, proprio all’incrocio della via, che, mi dicono, porta su al monte. Io, questa zona, la conosco poco, da ospite, molto amata, ma sempre ospite, me la faccio raccontare, non fa parte del mio passato, e il presente è recente, pure se di quasi trent’anni: mi mancano le strade precise, gli itinerari, la geografia.

E stasera sono venuta proprio per farmi raccontare tutto questo.

In un magazzino di paese con l’odore di legno e, forte, di mandarini e foglie, in una quasi notte fredda fredda, ma pulita, con tanti volti che non conosco. C’è buio, in fondo, e foto bianconero e un paio a colori che scorrono, e musica tra una lettura e l’altra.

Perché è una serata di lettura: il libro, Molina di Quosa, Una guida romantica. Non è una presentazione, nessun sermone, è una lettura.

Pensavo facesse freddo, qui dentro. Invece hanno chiuso le porte, la gente si scalda, il silenzio tiene quell’odore di mandarini che arriva fino a qua.

La lettura comincia con la storia di un autobus e di una piazza e poi di due alberi, il principio e la fine di ogni fatto e di tutte le trame di vita di questo posto. Che è un paese a due passi da Pisa, un paese nel paese, per dirla con esattezza.

Dunque un autobus che arriva (e pare non parta mai), una piazza e due alberi, tutto comincia qui e qui tutto ritorna. Accanto, un girotondo di volti, su panchine, campi da calcio, dancing, botteghe, alla fiera, un girotondo di vie e contesse e becchini, e davanti alla televisione per l’allunaggio.

E poi un girotondo di volti intorno e dentro il bar. Volti che si incontrano, si lasciano, si rivedono, si costruiscono, si legano.

Allora ho pensato, nella musica, nell’inflessione che ho imparato a amare, nell’ironia estranea che mi ha insegnato, negli anni, a lasciar andare il fardello cupo della magnagrecia, grata per la sera freddacalda, di musica e panchine, che quel libro che si stava leggendo, e la gente che non conoscevo, erano un poco pure miei. E che la panchina, il percorso del marciapiede – accompagno te, poi mi riaccompagni e poi di nuovo, per finire quello che dobbiamo dirci per intero –, un nonno, un barbiere, una via di chiesa, ce li avevo anch’io, che il paese, quello, è universale, anche io ce l’avevo quell’infanzia, nascosta dalle vie di città, pure io ritrovavo l’origine e il passato e la comunità e l’insieme.

Mi tornavano ricordi che manco sapevo di tenere, e emozioni, e voglia di rimanere ancora un poco in quello che Gabriele raccontava. Ricordi, memoria e sogni.

Che, forse, per chi scrive, niente altro può desiderarsi: risvegliare ricordi, rammentare la memoria, distribuire sogni. Anche con una mappa vera, disegnata da un architetto, per potersi ritrovare.

E allora, grazie.

Gabriele Santoni, Molina di Quosa, Una guida romantica, Edizioni ETS, Pisa, 2018

Pensiero irrisolto da treno

Se stasera avessi un blog

farei una riflessione. In effetti la sto già facendo, mentre c’è la brinata polverosa lungo i binari sotto i tralicci tra le canne nelle curve tra i due cipressi, sul pelo di un corso d’acqua, polverosa, zuccherosa, lacca. Un mondo laccato.

La riflessione è piuttosto nebulosa, non è detto che troverà chiarimento a breve.

La riflessione è questa: quando finisce?

Stamattina ho preso un treno che era ancora buio e poi sopra il monte è cresciuta un’alba rossa a sfilacci. Dentro un campanile forato e tra i tetti.

È ovvio che il buio finisce quando c’è la luce, e un anno finisce quando c’è il nuovo, al numero trentuno, e una strada a un incrocio e la minestra quando l’ho mangiata e questo viaggio alla stazione di arrivo.

Ma quando è la fine di cose non tangibili, non delimitabili, liquide?

A un balcone sono stese tute arancioni a bande grigie. Stese dritte per intero, la giacca a braccia aperte, i pantaloni allungati, spaventapasseri vuoti rigidi.

Vigneti stecchiti. Barili coperti bossi scolpiti da manodiforbice fuori dalle porte di rustici buttati nel nulla. Un aereo con una scia a cupola una nuvola a zigzag e la massicciata.

Il punto è non proprio capire quando finisce, ma riconoscere la fine e poi dichiararlo, dirselo senza veli, dirlo agli altri, e scriverlo sul diario. È finita.

No, non mi riferisco a una cosa in particolare, a un evento, una passione, un’entità specifica. Anche se in mente ce l’avrei un’idea precisa, anzi, ce l’ho proprio. Adesso, nel treno che rallenta in certe stazioni senza fermarsi.

E non so perché in questo treno surriscaldato mi viene un tale pensiero, ma i segnali di una possibile fine li sto avendo, proprio dentro il treno, che è già un altro e sto seduta qua a destra e invece prima ero sulla sinistra, e sfila un mare basso e cisposo, e nessuno, nessuno sulla spiaggia, anche se sono passate le undici, e la spiaggia arriva subito sulla strada, avessi il mare così in città, ci andrei ogni momento, invece manco una persona con un cane.

Quali sono i sintomi. Che di negativo, peraltro, hanno soltanto il fatto che li ho avvertiti all’improvviso, tipo un infarto. Lo spavento deriva dall’inatteso. Non me lo aspettavo, non lo credevo possibile.

Che non sono invece tanto male, a percepirli, anche se la parola sintomi richiama la malattia, ma questi sono tutt’altro che spiacevoli, un vago senso di libertà, una rilassatezza che non può essere tutta dovuta al riscaldamento infame del treno frecciabianca, un distacco armonioso, se addirittura mangio il panino e non mi interessa che cadano le briciole sulla sciarpa, e non metto il rossetto, e non spio il rudere della chiesa.

È dunque finita quando non cerchi i fantasmi, l’idioma che cambia, quando si è più stanchi dell’idea della ricerca che della stessa rincorsa.

Mi sono addormentata. Filari di ulivi pozzi pale eoliche. Ho un certo fastidio. Certo è fame, ma di più il disagio del nondolore. Assicuro che mi addolora il fatto di non provare dolore, forse a un certo punto, sul disco, non c’è spazio per certe sofferenze e quello restante va riservato. Però mi dispiace, il non dolore. Certo, troppi mari, in mezzo, malintesi, tempo e nessun litigio.

Peccato che sia finita. Perché è proprio finita. Lo so. E non so che fine fanno tutte le cose della cosa vecchia, dove restano, se restano, una cosa che è durata cinquant’anni è una cosa grossa, compreso l’esilio, compresa la rabbia, e tutti i posti e gli aneddoti e i fatti, dove si mettono.

C’è una riserva obbligatoria a cui attingere? E poi, soprattutto, una cosa grossa che è durata cinquant’anni e era sempre più grossa, e indispensabile e senza scampo e dolorosa, può essere sostituita da un’altra, così, senza pudore? Cioè una cosa finisce sempre perché ce n’è una nuova dietro l’angolo? Un inizio bello, appassionato, giovane – e mi dispiace davvero, ma per dirla tutta era già cominciata anni fa, lo devo confessare, nata e spenta subito, ma mi sentivo in colpa, tradire le cose grosse coi cugini, dannati, ricchi, coraggiosi, sfrontati, e, meno complicati, che puzzavano meno di morte.

La riflessione era nebulosa, ore fa, e tale è rimasta, e necessita di ulteriore approfondimento. Lo farò in seguito, a rate, scesa da questo treno, nel diario o durante le notti che verranno.

Intanto vado, che è sera, un principio di sera. Tutta una luce, una mitezza, un colore appagato dell’aria. La terrazza in cima ai binari. Un angolo giro.

Le lusinghe finte di un inizio, è chiaro, ma mi sa proprio che l’altra cosa è finita. Per ora.

La befana di Joyce

Laura Baldini

Tre anni fa, nella scuola dove allora insegnavo, dopo aver assistito allo storpiamento creativo, ma inesorabile, della parola epifania da parte degli studenti (“pifania” “befania” “befanina”…), decisi di spiegare loro da dove derivava il termine e di raccontare alcune curiosità legate a questa ricorrenza.

Iniziai dall’etimologia: epifania deriva dal greco epifaneia, che vuol dire ‘manifestazione, apparizione, venuta, presenza divina’. I Greci utilizzavano questo termine per indicare il manifestarsi di una divinità; miracoli e visioni divine erano  chiamati epifanie. Inoltre, fin dall’antichità, la dodicesima notte dopo il Natale era ritenuta una notte magica, durante la quale potevano accadere eventi speciali: era la notte dedicata alla Luna, e il termine epifania veniva usato per definire proprio ciò che si verificava in quella notte, legato alla manifestazione della luce lunare. 

La befana (e il suo personaggio) nasce invece da una “corruzione lessicale” della parola epifania e, soprattutto in Italia, veste i panni di una simpatica vecchietta che svolazza sui camini delle case, dispensando dolci o carbone a seconda di come si sono comportati i bambini durante il corso dell’anno.

Una leggenda vorrebbe che i Re Magi, diretti a Betlemme per portare i doni alla capanna di Gesù Bambino, non riuscendo a trovare la giusta via, avessero chiesto a una vecchietta di condurli a destinazione. La vecchia però non volle uscire di casa per accompagnarli e negò il suo aiuto. Più tardi, pentitasi del suo comportamento, preparò un cesto di dolci e uscì a cercarli. Fece sosta in ogni casa che trovò lungo il suo cammino, donando caramelle ai piccoli che incontrava, nella speranza che uno di loro fosse Gesù bambino.

In Francia al posto della vecchietta, ci sono i Re Magi che portano i doni; il 6 gennaio si prepara la tradizionale “galette des Rois”, una tipica torta che nasconde la statuina di un magio: chi la trova diventa “re del giorno” ed è suo l’onere e l’onore di offrire la torta l’anno successivo.

Come in Francia, anche in Spagna si attendono i Re Magi e i bambini usano svegliarsi molto presto per vedere i regali che Los Magos hanno lasciato (il giorno precedente mettono davanti alla porta acqua per i cammelli assetati e cibo).

Anche la Russia festeggia il 6 Gennaio: la chiesa ortodossa, però, in questo giorno celebra il Natale. Secondo la leggenda, in Russia, i regali vengono portati da Padre Gelo accompagnato da Babuschka , una simpatica vecchietta che ricorda molto la nostra befana.

In Germania l’epifania viene festeggiata solo in poche zone e viene comunque considerato un giorno feriale: si lavora come al solito e i bambini vanno regolarmente a scuola. Lo stesso accade in Inghilterra.

In Inghilterra però, anzi, nella letteratura inglese, il termine “epifania” ha un ruolo di primaria importanza, non come festa, appunto, ma come tecnica narrativa. Il termine venne infatti ripreso nel suo equivalente “epiphany” da James Joyce per indicare momenti di rivelazione nella vita di un personaggio. Le epifanie possono corrispondere a dettagli o a ricordi sepolti per lungo tempo nella memoria che all’improvviso riemergono e fanno scaturire sensazioni ed emozioni talvolta malinconiche e dolorose. Le epifanie di Joyce ricordano i “moments of being” di Virginia Woolf, cioè momenti percettivi, talvolta visionari, ricchi di intensa emotività.

La parola però, all’uso di Joyce, anticipa l’accento, si parla di epifània. Nelle sue opere l’epifània ricorre molto spesso al negativo: i suoi personaggi hanno spesso delle apparizioni così sconvolgenti da portarli alla paralisi.  Evelina, la giovane donna che dà il titolo a uno dei racconti dei Dubliners, ne è un chiaro esempio.

La campanella mi ricordò che l’ora era finita; i ragazzi uscirono rumoreggiando dall’aula prima del cambio di insegnante. Uno studente dalla soglia dell’aula accanto chiese a uno dei miei: “Che avete fatto?” e il mio studente con aria compita rispose: “La prof ci ha spiegato la befana di Gioisse, mapperò era una befana parecchio cattiva”.  

Lo guardai un po’ perplessa. Poi che dire? Ognuno ha la sua befana… Joyce compreso!

Buona Epifania!

Marcovaldo non abita a Pisa

Se stasera avessi un blog

forse prenderei posizione. Che questa era una delle intenzioni del giornalino in rete.

La prenderei su una questione tutta pisana, sorta sul riluttante tramonto dell’anno in corso, credo fosse autunno. Una questione su cui molti si sono espressi. Che a tratti mi ha provocato rabbia, il più delle volte mi ha fatto sorridere, manco so bene perché. Mi ha fatto sorridere questa cosa del pugno battuto sul tavolo, il velafacciovedereioatutti.

Ma sul finire dell’anno, con la questione ancora in bilico, regalo a qualcuno una chicca di letteratura. E chi non l’ha letta, da bambino, quella pagina di Calvino su una libera dormita, disturbata da idranti per aiuole, fidanzati in crisi e semafori, in una notte afosa, su una panchina. Con buona pace dell’agente Torquanici.

Perché la letteratura ci salverà.

Estate

La villeggiatura in panchina

Andando ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo passava sotto il verde d’una piazza alberata, un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie. Alzava l’occhio tra le fronde degli ippocastani, dov’erano più folte e solo lasciavano dardeggiare gialli raggi nell’ombra trasparente di linfa, ed ascoltava il chiasso dei passeri stonati ed invisibili sui rami. A lui parevano usignoli; e si diceva: «Oh, potessi destarmi una volta al cinguettare degli uccelli e non al suono della sveglia e allo strillo del neonato Paolino e all’inveire di mia moglie Domitilla!» oppure: «Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a questo fresco verde e non nella mia stanza bassa e calda; qui nel silenzio, non nel russare e parlare nel sonno di tutta la famiglia e correre di tram giù nella strada; qui nel buio naturale della notte, non in quello artificiale delle persiane chiuse, zebrato dal riverbero dei fanali; oh, potessi vedere foglie e cielo aprendo gli occhi!» Con questi pensieri tutti i giorni Marcovaldo incominciava le sue otto ore giornaliere – più gli straordinari – di manovale non qualificato.

C’era, in un angolo della piazza, sotto una cupola d’ippocastani, una panchina appartata e seminascosta. E Marcovaldo l’aveva prescelta come sua. In quelle notti d’estate, quando nella camera in cui dormivano in cinque non riusciva a prendere sonno, sognava la panchina come un senza tetto può sognare il letto d’una reggia. Una notte, zitto, mentre la moglie russava ed i bambini scalciavano nel sonno, si levò dal letto, si vestì, prese sottobraccio il suo guanciale, uscì e andò alla piazza. Là era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto di quegli assi d’un legno – ne era certo – morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso del suo letto; avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli occhi in un sonno riparatore d’ogni offesa della giornata.

Il fresco e la pace c’erano, ma non la panca libera. Vi sedevano due innamorati, guardandosi negli occhi. Marcovaldo, discreto, si ritrasse. «È tardi, –pensò, – non passeranno mica la notte all’aperto! La finiranno di tubare! »

Ma i due non tubavano mica: litigavano. E tra due innamorati un litigio non si può dire mai a che ora andrà a finire.

Lui diceva: – Ma tu non vuoi ammettere che dicendo quello che hai detto sapevi di farmi dispiacere anziché piacere come facevi finta di credere? Marcovaldo capì che sarebbe andata per le lunghe.

– No, non l’ammetto, – rispose lei, e Marcovaldo già se l’aspettava.

– Perché non l’ammetti?

– Non l’ammetterò mai.

«Ahi», pensò Marcovaldo. Col suo guanciale stretto sotto il braccio, andò a fare un giro. Andò a guardare la luna, che era piena, grande sugli alberi e i tetti. Tornò verso la panchina, girando un po’ al largo per lo scrupolo di disturbarli, ma in fondo sperando di dar loro un po’ di noia e persuaderli ad andarsene. Ma erano troppo infervorati nella discussione per accorgersi di lui.

– Allora ammetti?

– No, no, non lo ammetto affatto! Ma ammettendo che tu ammettessi?

– Ammettendo che ammettessi, non ammetterei quel che vuoi farmi ammettere tu! Marcovaldo tornò a guardare la luna, poi andò a guardare un semaforo che c’era un po’ più in là. Il semaforo segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad accendersi e riaccendersi. Marcovaldo confrontò la luna e il semaforo. La luna col suo pallore misterioso, giallo anch’esso, ma in fondo verde e anche azzurro, e il semaforo con quel suo gialletto volgare. E la luna, tutta calma, irradiante la sua luce senza fretta, venata ogni tanto di sottili resti di nubi, che lei con maestà si lasciava cadere alle spalle; e il semaforo intanto sempre lì accendi e spegni, accendi e spegni, affannoso, falsamente vivace, stanco e schiavo.

Tornò a vedere se la ragazza aveva ammesso: macché, non ammetteva, anzi non era più lei a non ammettere, ma lui. La situazione era tutta cambiata, ed era lei che diceva a lui: – Allora, ammetti? – e lui a dire di no. Così passò mezz’ora. Alla fine lui ammise, o lei, insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene tenendosi per mano.

Corse alla panchina, si buttò giù, ma intanto, nell’attesa, un po’ della dolcezza che s’aspettava di trovarvi non era più nella disposizione di sentirla, e anche il letto di casa non lo ricordava più così duro. Ma queste erano sfumature, la sua intenzione di godersi la notte all’aperto era ben ferma: sprofondò il viso nel guanciale e si dispose al sonno, a un sonno come da tempo ne aveva smesso l’abitudine.

Ora aveva trovato la posizione più comoda. Non si sarebbe spostato d’un millimetro per nulla al mondo. Peccato soltanto che a stare così, il suo sguardo non cadesse su di una prospettiva d’alberi e ciclo soltanto, in modo che il sonno gli chiudesse gli occhi su una visione di assoluta serenità naturale, ma davanti a lui si succedessero, in scorcio, un albero, la spada d’un generale dall’alto del suo monumento, un altro albero, un tabellone delle affissioni pubbliche, un terzo albero, e poi, un po’ più lontano, quella falsa luna intermittente del semaforo che continuava a sgranare il suo giallo, giallo, giallo. Bisogna dire che in questi ultimi tempi Marcovaldo aveva un sistema nervoso in così cattivo stato che, nonostante fosse stanco morto, bastava una cosa da nulla, bastava si mettesse in testa che qualcosa gli dava fastidio, e lui non dormiva. E adesso gli dava fastidio quel semaforo che s’accendeva e si spegneva. Era laggiù, lontano, un occhio giallo che ammicca, solitario: non ci sarebbe stato da farci caso. Ma Marcovaldo doveva proprio essersi buscato un esaurimento: fissava quell’accendi e spegni e si ripeteva: «Come dormirei bene se non ci fosse quell’affare! Come dormirei bene! » Chiudeva gli occhi e gli pareva di sentire sotto le palpebre l’accendi e spegni di quello sciocco giallo; strizzava gli occhi e vedeva decine di semafori; li riapriva, era sempre daccapo.

S’alzò. Doveva mettere uno schermo tra sé e il semaforo. Andò fino al monumento del generale e guardò intorno. Ai piedi del monumento c’era una corona d’alloro, bella spessa, ma ormai secca e mezzo spampanata, montata su bacchette, con un gran nastro sbiadito: «I Lancieri del Quindicesimo nell’Anniversario della Gloria». Marcovaldo s’arrampicò sul piedestallo, issò la corona, la infilò alla sciabola del generale.

Il vigile notturno Tornaquinci in perlustrazione attraversava la piazza in bicicletta; Marcovaldo s’appostò dietro la statua. Tornaquinci aveva visto sul terreno l’ombra del monumento muoversi: si fermò pieno di sospetto. Scrutò quella corona sulla sciabola, capì che c’era qualcosa fuori posto, ma non sapeva bene che cosa. Puntò lassù la luce d’una lampadina a riflettore, lesse: «I Lancieri del Quindicesimo nell’Anniversario della Gloria», scosse il capo in segno d’approvazione e se ne andò.

Per lasciarlo allontanare, Marcovaldo rifece il giro della piazza. In una via vicina, una squadra d’operai stava aggiustando uno scambio alle rotaie del tram. Di notte, nelle vie deserte, quei gruppetti d’uomini accucciati al bagliore dei saldatori autogeni, e le voci che risuonano e poi subito si smorzano, hanno un’aria segreta come di gente che prepari cose che gli abitanti del giorno non dovranno mai sapere. Marcovaldo si avvicinò, stette a guardare la fiamma, i gesti degli operai, con un’attenzione un po’ impacciata e gli occhi che gli venivano sempre più piccoli dal sonno. Cercò una sigaretta in tasca, per tenersi sveglio, ma non aveva cerini. – Chi mi fa accendere? – chiese agli operai. – Con questo? –disse l’uomo della fiamma ossidrica, lanciando un volo di scintille.

Un altro operaio s’alzò, gli porse la sigaretta accesa. – Fa la notte anche lei?

– No, faccio il giorno, – disse Marcovaldo.

– E cosa fa in piedi a quest’ora? Noi tra poco si smonta.

Ritornò alla panchina. Si sdraiò. Ora il semaforo era nascosto alla sua vista; poteva addormentarsi, finalmente.

Non aveva badato al rumore, prima. Ora, quel ronzio, come un cupo soffio aspirante e insieme come un raschio interminabile e anche uno sfrigolio, continuava a occupargli gli orecchi. Non c’è suono più struggente di quello d’un saldatore, una specie d’urlo sottovoce. Marcovaldo, senza muoversi, rannicchiato com’era sulla panca, il viso contro il raggrinzito guanciale, non vi trovava scampo, e il rumore continuava a evocargli la scena illuminata dalla fiamma grigia che spruzzava scintille d’oro intorno, gli uomini accoccolati in terra col vetro affumicato davanti al viso, la pistola del saldatore nella mano mossa da un tremito veloce, l’alone d’ombra intorno al carrello degli attrezzi, all’alto castello di traliccio che arrivava fino ai fili. Aperse gli occhi, si rigirò sulla panca, guardò le stelle tra i rami. I passeri insensibili continuavano a dormire lassù in mezzo alle foglie. Addormentarsi come un uccello, avere un’ala da chinarci sotto il capo, un mondo di frasche sospese sopra il mondo terrestre, che appena s’indovina laggiù, attutito e remoto. Basta cominciare a non accettare il proprio stato presente e chissamai dove s’arriva: ora Marcovaldo per dormire aveva bisogno d’un qualcosa che non sapeva bene neanche lui, neppure un silenzio vero e proprio gli sarebbe bastato più, ma un fondo di rumore più morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto d’un sottobosco, o un mormorio d’acqua che rampolla e si perde in un prato.

Aveva un’idea in testa e s’alzò. Non proprio un’idea, perché mezzo intontito dal sonno che aveva in pelle in pelle, non spiccicava bene alcun pensiero; ma come il ricordo che là intorno ci fosse qualche cosa connessa all’idea dell’acqua, al suo scorrere garrulo e sommesso.

Difatti c’era una fontana, lì vicino, illustre opera di scultura e d’idraulica, con ninfe, fauni, dèi fluviali, che intrecciavano zampilli, cascate e giochi d’acqua. Solo che era asciutta: alla notte, d’estate, data la minor disponibilità dell’acquedotto, la chiudevano. Marcovaldo girò lì intorno un po’ come un sonnambulo; più che per ragionamento per istinto sapeva che una vasca deve avere un rubinetto. Chi ha occhio, trova quel che cerca anche a occhi chiusi. Aperse il rubinetto: dalle conchiglie, dalle barbe, dalle froge dei cavalli si levarono alti getti, i finti anfratti si velarono di manti scintillanti, e tutta quest’acqua suonava come l’organo d’un coro nella grande piazza vuota, di tutti i fruscii e gli scrosci che può fare l’acqua messi insieme. Il vigile notturno Tornaquinci, che ripassava in bicicletta nero nero a mettere bigliettini sotto gli usci, al vedersi esplodere tutt’a un tratto davanti agli occhi la fontana come un liquido fuoco d’artificio, per poco non cascò di sella.

Marcovaldo, cercando d’aprir gli occhi meno che poteva per non lasciarsi sfuggire quel filo di sonno che gli pareva d’aver già acchiappato, corse a ributtarsi sulla panca. Ecco, adesso era come sul ciglio d’un torrente, col bosco sopra di lui, ecco, dormiva.

Sognò un pranzo, il piatto era coperto come per non far raffreddare la pasta. Lo scoperse e c’era un topo morto, che puzzava. Guardò nel piatto della moglie: un’altra carogna di topo. Davanti ai figli, altri topini, più piccoli ma anch’essi mezzo putrefatti. Scoperchiò la zuppiera e vide un gatto con la pancia all’aria, e il puzzo lo svegliò.

Poco distante c’era il camion della nettezza urbana che va la notte a vuotare i tombini dei rifiuti. Distingueva, nella mezzaluce dei fanali, la gru che gracchiava a scatti, le ombre degli uomini ritti in cima alla montagna di spazzatura, che guidavano per mano il recipiente appeso alla carrucola, lo rovesciavano nel camion, pestavano con colpi di pala, con voci cupe e rotte come gli strappi della gru: – Alza… Molla… Va’ in malora… – e certi cozzi metallici come opachi gong, e il riprendere del motore, lento, per poi fermarsi poco più in là e ricominciare la manovra.

Ma il sonno di Marcovaldo era ormai in una zona in cui i rumori non lo raggiungevano più, e quelli poi, pur così sgraziati e raschianti, venivano come fasciati da un alone soffice d’attutimento, forse per la consistenza stessa della spazzatura stipata nei furgoni: ma era il puzzo a tenerlo sveglio, il puzzo acuito da un’intollerabile idea di puzzo, per cui anche i rumori, quei rumori attutiti e remoti, e l’immagine in controluce dell’autocarro con la gru non giungevano alla mente come rumore e vista ma soltanto come puzzo. E Marcovaldo smaniava, inseguendo invano con la fantasia delle narici la fragranza d’un roseto.

Il vigile notturno Tornaquinci si sentì la fronte madida di sudore intravedendo un’ombra.

 umana correre carponi per un’aiola, strappare rabbiosamente dei ranuncoli e sparire. Ma pensò essersi trattato o d’un cane, di competenza degli accalappiacani, o d’un’allucinazione, di competenza del medico alienista, o d’un licantropo, di competenza non si sa bene di chi ma preferibilmente non sua, e scantonò.

Intanto, Marcovaldo, ritornato al suo giaciglio, si premeva contro il naso il convulso mazzo di ranuncoli, tentando di colmarsi l’olfatto del loro profumo: poco ne poteva però spremere da quei fiori quasi inodori; ma già la fragranza di rugiada, di terra e d’erba pesta era un gran balsamo. Cacciò l’ossessione dell’immondizia e dormì. Era l’alba.

Il risveglio fu un improvviso spalancarsi di ciclo pieno di sole sopra la sua testa, un sole che aveva come cancellato le foglie e le restituiva alla vista semicieca a poco a poco. Ma Marcovaldo non poteva indugiare perché un brivido l’aveva fatto saltar su: lo spruzzo d’un idrante, col quale i giardinieri del Comune innaffiano le aiole, gli faceva correre freddi rivoli giù per i vestiti. E intorno scalpitavano i tram, i camion dei mercati, i carretti a mano, i furgoncini, e gli operai sulle biciclette a motore correvano alle fabbriche e le saracinesche dei negozi precipitavano verso l’alto, e le finestre delle case arrotolavano le persiane, e i vetri sfavillavano. Con la bocca e gli occhi impastati, stranito, con la schiena dura e un fianco pesto, Marcovaldo correva al suo lavoro.

La scatola del Natale

Se stasera avessi un blog

Certo parlerei della scatola del Natale. Che non è sempre la stessa. Tra le tante da riciclare, quella che capita. E, in verità, neanche della scatola del Natale vorrei parlare, ma del messaggio dentro la scatola del Natale.

Di lugubre il gesto è lugubre, almeno nelle intenzioni di tredicenne leopardiana depressa. Le intenzioni tali e quali sono rimaste, negli anni, pure se ho sostituto un più equilibrato Neruda a un mesto Leopardi.

Insomma il rito del messaggio è rimasto. È un messaggio da post Natale, quando, dopo un bel po’ di convivenza, smonto l’albero, intorno ai primi di gennaio, che ormai non ne posso più pure del Natale, iniziato spesso con le castagne.

Quando tutti dicono tienilo fino alla Befana, così si fa, ma a me piace cominciare subito e finire quando decido che è finito.

Quando incarto le palline, i fiocchetti e pure le carte da regalo, i regali brutti e quelli così e così, l’anno prossimo risparmio, almeno coi conoscenti, le lanterne, le renne, i cuori, gli gnomi, le candele a tema, e penso, gennaio è iniziato ieri, un altro anno davanti, e infilo un messaggio per me tra dieci mesi. Un messaggio da Torquemada fatto in casa, su un foglio di quaderno, o uno scontrino, o il retro del volantino pubblicitario di pizza a domicilio.

Hai comprato la casa nuova? L’hai pubblicato il libro? Hai cambiato strada? Stai bene? E, soprattutto, sei ancora viva?

A novembre prossimo, la me di tra undici mesi leggerà il messaggio e risponderà.

Quest’anno ho risposto che sì, sono ancora viva. No, niente di nuovo. Anzi sì. Che stasera, di nuovo, ho questo diario, poco tematico, molto artigianale, senza meta, che vedremo se sopravvive alla scatola del Natale.

Caro Babbo Natale

Caro Babbo Natale,

Cosa desidero ricevere? Sono tante le cose che mi piacerebbe avere, ma cominciamo dalla prima: vorrei non perdere mai la mia ostinata abitudine di guardare al futuro con la capacità di sognare, sognare così forte che poi, a volte i sogni si avverano.

Vorrei poi che tu mi portassi almeno metà di quell’ottimismo che avevo a vent’anni, sì metà mi basta, a cinquant’anni non si può avere la spensieratezza positiva dei ventenni.

Desidererei inoltre, caro Babbo Natale, aumentare il mio livello di autostima, ché da quando sono nata è rimasto fermo lì, insomma non ho mai fatto gli aggiornamenti!

E poi mi piacerebbe che tu consegnassi a tutte le persone a cui voglio bene serenità e polvere di stelle, quella che ti fa sorridere e ti fa brillare lo sguardo.

Un’ultima cosa: se fosse possibile, potresti procedere a una generale distribuzione, equa e generosa, di buon senso, umanità ed empatia? Ultimamente latitano e io sono molto preoccupata.

Grazie davvero per tutto ciò che riuscirai a fare, un saluto affettuoso e BUON NATALE!

Laura

(…) Che belle le vetrine senza vetri!
Senza vetri, s’intende,
così ciascuno prende
quello che più gli piace: e non si passa
mica alla cassa, perché
la cassa non c’è. Un bel Pianeta davvero
Anche se qualcuno insiste
A dire che non esiste…
Ebbene, se non esiste, esisterà:
che differenza fa?

(G. Rodari, da Il pianeta degli alberi di Natale)



tavernaProust. La rubrica del martedì

Tubetti con cozze e fagioli

Ingredienti per 4 persone

1 Kg e mezzo di cozze

400 gr di tubetti (lisci, rigati, tubettini, paternostri)

250 gr di fagili cannellini

mezzo bicchiere di vino bianco secco

qualche goccia di limone

una decina di pomodorini maturi

aglio

olio evo

pepe

peperoncino

una manciata di prezzemolo

A volte la memoria si forma nei posti e con le persone sbagliati e i suoi segni vanno corretti.

Certo adesso è il piatto che crea e lascia andare, per me, ricordi di serate invernali, e non solo natalizie, tra quelli che Gabriele chiama gli amici del cuore. Adottata con amore dalla Toscana, com amore ho importato in Toscana questa minestra. Ma c’è un’altra ragione, per questo.

I tubetti con le cozze a Taranto, nella mia città, sono piatto delle feste di Natale. Facile, caldo, povero.

Un piatto della famiglia a Santa Cecilia, alla vigilia – alle vigilie, ben più importanti delle feste vere, cene di falso magro, pesce e cozze.

Mi raccontava il professor Giacinto Peluso, nel suo ultimo periodo, quando ancora non aveva perso la voglia di essere la voce di Taranto, la sua memoria, il suo cantastorie, che la sera di Santa Cecilia, il 22 novembre, festa che apre il Natale tarantino -pare, il più lungo d’Europa-, in quella sera di Santa Cecilia, c’era in tavola una cena di 14 portate, 14 piatti, cose facili, mica come ora, le rape, due cozze, la cicoria, le pettole di pasta fritta, e già ne avevi ne fatto quattro con quattro soldi. Insomma tra le 14 portate – verità o leggenda di questo numero non è dato sapere, mancando conferme sicure alla tradizione orale – c’erano i tubetti con le cozze.

È dunque piatto tipico, che sa di casa. Sapido, specie nei mesi che hanno la erre nel nome, novembre, dicembre, quando le cozze tarantine sono migliori.

Anche se devo dire che, invece, a casa mia, l’ho mangiato poco, se non per sbaglio e in tempi molto recenti. Mio padre, poco incline alle tradizioni di città, lui meticcio, spezzato tra collina e mare, diffidente verso minestre brodose e poco rosse di pomodoro, pensava che ogni piatto senza spaghetti fosse sprecato. Quindi spaghetti con le cozze, Santa Cecilia, vigilia, Natale, Santo Stefano, Pasqua e pure Ferragosto.

E manco al tubetto di cui parlo qui, che alle cozze tradizionali aggiunge i fagioli cannellini, è legato un bel ricordo, come al contrario potrebbe pensarsi: niente infanzia, sapori di casa e posti giusti.

L’ho scoperto, il tubetto cozze e fagioli, quando ero a cena fuori una sera di Santa Cecilia. L’ultima dell’ultimo anno che avrei passato in città, ma ancora non lo sapevo. Non si fa. Non avrei dovuto farlo, lasciare tutto per andare a cena fuori con uno sconosciuto, un forestiero con una brutta macchina bianca, non ci si sposta dal mare, dal borgo vecchio verso l’entroterra, lasciando la famiglia, le bande, il profumo delle pettole. Così di quella sera, in un locale tra le gravine, in una saletta di tufo, mi ricordo solo un forestiero inutile, discorsi di dubbio gusto e la minestra, insieme a un vago senso di fastidio e di colpa verso la città che avevo abbandonato spalmata sotto la discesa. E lei, la città, mi accolse al ritorno con un diluvio planetario. Sa essere vendicativa, con i suoi figli, Taranto, quando vuole.

Da allora i tubetti con le cozze li devo riscattare, li devo circondare di ricordi buoni, li devo liberare dal’eco molesta di essere stata, l’ultima Santa Cecilia a Taranto, nel posto stonato, nel luogo fuori luogo, e nel momento fuorviante per il cuore.

PREPARAZIONE

Pulire le cozze. Lasciare che si schiudano in una padella, con un dito di acqua e qualche goccia di limone.

Scegliere i frutti e filtrare l’acqua di cottura che servirà per cuocere la minestra.

Lessare i fagoli cannellini, dopo averli tenuti a bagno per una notte con un pizzico di sale.

In una pentola scaldare l’olio con l’aglio. Versare le cozze pulite e sfumarle con il vino bianco. Aggiungere i fagioli con un po’ del loro brodo, i pomodorini schiacciati, l’acqua di cottura delle cozze. Sale, pepe e peperoncino.

Cuocere per dieci minuti. Terminare con il prezzemolo tritato finemente.

Lessare la pasta e scolarla per bene. Unire alla minestra di cozze.

Va servita calda, brodosa, piccante.

Se avete fretta, e siete soli, e non ci sono gli amici del cuore a cena, e avete voglia di sentire un attimo della città lontana, mettete nell’olio bollente una confezione di cozze cilene ancora surgelate, un barattolo di fagioli in scatola e due ciliegini da supermercato. Il risultato non è lo stesso, ma la memoria non lo sa.

tavernaProust. La rubrica del martedì

Crema di zucca alla francese

Era il 3 dicembre, e continuava a piovere.(I fantasmi del cappellaio, G. Simenon)

Era il diciannove novembre, e continuava a piovere. Sarebbe piovuto per il resto della notte e della settimana, ma non era rilevante, in quel momento, il futuro.

Solo tre ore a Parigi per consegnare un pacchetto.

Il locale era deserto se non per due donne che sedevano al primo tavolo, quasi schiacciate in vetrina. Erano vecchie e, sotto gli abiti confusi, neri, le rouches delle camicie, le balze delle gonne ampie, i pizzi dozzinali, le pieghe dei guanti lunghi sino al gomito e consumati sulle dita, e i cappelli, i cappelli indossati al tavolo – certo li avrebbero tolti per la cena, ma adesso li avevano in testa, appena sbilenchi – si capiva che erano floride, un po’ sfatte.

Gli zigomi allargati da una risata che diventava sempre più roca e dai toni alti. Ma non era una risata irritante, loro non lo erano. Ridevano insieme a un uomo anziano con i capelli lunghi e sporchi.

Le due donne bevevano.

Pioveva ancora e al calore del locale liberarono il seno ampio, soddisfatto.

Nella vetrata, una Pigalle madida.

Il cameriere portò la zuppa, anche a loro.

Tolsero i guanti e li arrotolarono.

Un’altra donna entrò, era vestita di nero, le balze, le rouches, il cappello. Si mise a sedere e prese a ridere anche lei, senza necessità di capire il motivo delle risate degli altri. Pensai ridessero di me.

Poi una mi disse, ciao, in un italiano finto, strascicato dall’alcool. Fecero tutte ciao con la mano e mandarono baci con le dita mentre ridevano. Mi dettero allegria.

Pensai che avessero lavorato nel quartiere fino a qualche tempo prima e vivessero in quella strada, in un appartamento in Rue Pigalle, oppure nei romanzi di Simenon.

Quando arrivò l’uomo che aspettavo, loro risero più forte, mandarono baci anche a lui e lo invitarono al tavolo.

Ma quello non si fermò. Non volle assaggiare un cucchiaio di crema di zucca.

Prese il pacco senza sedersi e salutò.

Loro dissero ooohhh in coro, deluse e stizzite. Una mimò una lacrima, col dito finse di ricacciarla nell’occhio.

Poi risero. Davvero ridevano di me.

La crema era calda.

Quando andai via, mi accorsi che un altro tavolo era occupato, nell’angolo, un uomo scriveva su un pezzo di carta, beveva birra e neppure lui aveva tolto il maledetto cappello né spento la pipa.

1 Kg di zucca

2 porri

30 gr di formaggio francese erborinato

mezzo bicchiere di vino bianco secco

una tazza di brodo vegetale o di pollo

10 gr di burro

olio evo

pepe

cannella

noce moscata

Avvolta nella carta di alluminio, cuocere in forno la zucca, senza eliminare la buccia.

Intanto, in una casseruola, far appassire e poi stufare col burro, un cucchiaino di olio, il vino bianco e un dito di acqua, i porri. Salare appena. Qui, tutto è già sapido.

Una volta raffreddata, raccogliere la polpa ormai morbida della zucca e frullarla con i porri. Cuocere il composto ottenuto per circa dieci minuti col brodo. Salare se necessario. Tutto è già sapido.

Aggiungere le spezie e il formaggio, che si scioglierà rendendo la zuppa cremosa.

Servire con crostini pane tostato.

tavernaProust. La rubrica del martedì

Riso al sugo di carne mista

400 gr di riso Roma o riso Originario

250 gr di polpa di manzo macinata

250 gr di polpa di maiale macinata

2 fegatini di pollo

100 gr di pasta di salsiccia

500 gr di passata di pomodoro

una cipolla

una costa di sedano

una carota piccola

un bicchiere di vino rosso

un pizzico di cannella

un pizzico di timo

un pizzico di noce moscata

una noce di burro

olio evo

sale

pepe

Che poi a me il riso non piace nenche tanto. È il cibo dell’ammalato, delle indigestioni, delle indisposizioni da influenza. Un pasto col riso è sprecato, praticamente inutile, rimediato.

E così mi dovrei chiedere perché, in questo posto, sciupino un ragù simile col riso. Perché non ci condiscano gli spaghetti, due maltagliati, meglio ancora qualche tordello tipico della Garfagnana.

Non me lo chiedo mai.

Il posto non mi ricordo come si chiama. Di certo c’è ancora. Dietro la scuola, in una via in discesa, con l’acciottolato così scivoloso che, mi ricordo, devo tenermi ai muri.

Dietro la scuola o davanti?

Insomma siamo a Barga negli anni novanta. Abito a sessanta chilometri e le riunioni iniziano alle cinque, che bisogna aspettare la fine dei turni pomeridiani.

Così le riunioni – sempre le stesse, nella scuola, lunghe, noiose, soporifere, strutturalmente inutili, vettori di infinite tristezze, mentre guardi il cielo e lo sai che pioverà o nevicherà nel bel mezzo del viaggio di ritorno – termineranno non prima di tre ore. A casa alle dieci, se va bene.

Se la frana su un lato non costringerà – che la variante ancora non l’hanno costruita – a una gincana tra un lato e l’altro del fiume.

Con la radio accesa.

Senza cellulare.

La compagnia dei colleghi da smistare, uno nel parcheggio dell’Esselunga, uno all’incrocio, uno alle suore.

Con l’ultimo pezzo di strada da sola.

Con la nebbia, la pioggia, mentre la prima neve è rimasta indietro.

Non sono di queste parti, e questa strada e questi monti ho dovuto impararli tutti insieme.

Ma sono gli anni novanta e ancora molto sembra possibile. Basta arrivare a casa, che domani alle quattro e mezzo di nuovo in piedi e di nuovo qua, verso su, nebbia, frana, la compagnia dei colleghi da ricomporre, uno al parcheggio dell’Esselunga, uno all’incrocio, uno alle suore.

Avete dormito.

Non mi è sembrato di essere mai tornato a casa.

Se aumenta la neve, ci fermiamo qui.

In questo strano mestiere da insegnante, mestiere zingaro, girovago, ballerino, il cuore si lascia un po’ qui e un po’ là. Non c’è una ragione per cui il cuore sceglie di rimanere, in porzioni, in una scuola o in un’altra. Non c’entrano gli alunni, i colleghi. Forse la luce delle aule, forse il quadro che si fa largo nelle finestre durante la lezione.

Così a Barga, prima delle riunioni, scesa la via lucida lastricata di pioggia, si entra in un bar che è anche una trattoria. Ci si può rimanere per ore. Fuori la neve, la pioggia o la nebbia, la strada sdrucciolevole pericolosa, la strada che aspetta dopo, al buio, insidiosa.

Portano questo riso bianco con un ragù di carne mista. Non è un risotto, ma solo riso lesso condito con un sugo denso, tirato, un impasto più che una salsa. Lo portano su certi vassoi di ceramica bianca senza alcuna pretesa, lisci, dozzinali, ma grandi, ovali spropositati di riso e sugo già coperto di parmigiano, e il vapore si attacca alla porta a vetri che divide la panche della trattoria dai quattro tavolini del bar, e ci si serve a cucchiaiate, si mangia solo questo, riso e riso.

Tanto riso, montagne di riso rosso, di macinato.

C’è la macchina del caffè.

Al tavolo accanto alcuni muratori pranzano.

Il buio viene giù in una volta sola.

C’è Barga e la Collegiata e i palazzi.

C’è Barga e la via degi antiquari e i mercanti d’arte.

Una collana di perle che compro a due soldi e pare sia di una nobile in disgrazia.

Gli scozzesi, nelle loro ville, che si dice, si sono comprati il paese per intero.

In una terrina mettere a soffriggere le vedure nell’olio. Aggiungere tutta la carne macinata, i fegatini a pezzetti, la pasta di salsiccia. Far rosolare e sfumare col vino rosso.

Aggiungere le spezie, poco sale, il pepe. Da ultima, la passata di pomodoro.

E poi lasciare che cuocia, tanto, ore, che tutto il vapore venga su e copra la porta a vetri; che cuocia per ore, c’è da aspettare che aprano i negozi d’arte, e la nebbia sul selciato s’asciughi, e la neve si posi, e la pioggia scenda a valle.

Che cuocia fino a che la riunione è finita, tutti sono rientrati a casa, nei loro letti, insegnanti, muratori e scozzesi.

Lessare il riso e condirlo con il sugo di carne, nel quale, infine, sarà stata sciolta la noce di burro.

Servire nel vassoio più generoso che c’è in casa. Maggiore il vassoio, più grande il conforto.

tavernaProust. La rubrica del martedì

Salsicce in interno londinese


Leinster Arms
17 Leinster Terrace, Bayswater, London W2 3EU

La taverna dei ricordi ritrova, oggi, un piatto di salsicce Cumberland in un pub a due passi da Kensington Gardens e a quattro da Hyde Park. Fermata della metropolitana, Lancaster Gate.

Un piatto di salsicce Cumberland nella luce di un interno londinese.

Le Cumberland sono salsicce tradizionali che provengono dalla Contea di Cumbria. Versione corta di quelle più lunghe di cinquanta centimetri, si pensa siano state introdotte dai migranti tedeschi, arrivati qui per lavorare nelle miniere della zona durante il XVI secolo. Sono di maiale, piccanti, la carne è a grana grossa. Come queste, che sono speziate e grosse anche loro.

Agosto freddo. L’acquerugiola solita.

La Londra dei pub, caldi.

La Londra delle mille razze, calde.

C’è un ragazzo bellissimo, dalla pelle così lucida, e così dolce, e con un sorriso così largo che ho pensato, se avessi avuto un figlio, sarebbe stato così dolce e largo nel sorriso.

Le salsicce sono pepate, calde e servite col classico purè e i pisellini. I bicchieri di birra invitano, another round?

Ce n’è sempre un altro, di giro, nella maggior parte dei casi.

Ci sarei voluta tornare, ma poi non so che cosa sia successo, che cosa succede. Ci sarei tornata tutte le sere, per quelle salsicce calde, il pepe, il brodo, la caramellata di cipolle da rubare al compagno di cena che ha preso salsicce diverse.

C’è un calore dolce, in questo posto a due passi da Kensington Gardens e a quattro da Hyde Park. Uno dei ricordi è rimasto lì.

Può stare un ricordo in un piatto di salsicce? Non meno che in una flûte di champagne.

tavernaProust. La rubrica del martedì

Torta salata alle erbe di campagna

Per la pasta

400 gr di farina 00

150 gr di latte intero

un cucchiaio di olio evo

sale

mezzo cucchiaino di zucchero

un panetto di lievito di birra

Per il ripieno

500 gr di erbette di campo (pulite)

un uovo

200 gr ricotta

parmigiano

sale e pepe

A Bari eravano studentesse fuorisede.

Stavamo in una casa insieme a una donna anziana, molto anziana, che, sono convinta – non avendo notizie in altro senso – sia ancora viva. Sono certa che sia sempre lì, abbia ormai oltre 120 anni e, come allora, affitti camere a studentesse.

La signora era molto anziana, dunque, le eravamo state affidate da genitori ansiosi e conservatori.

La signora era dunque molto anziana e particolarmente parsimoniosa. Nella retta erano compresi pranzo e cena. E così era: a pranzo molte minestre di fagioli, la sera, fette di mortadella, wurstel scaduti da un pezzo e petti di pollo secchi.

Ma certe volte, solo alcune, la signora anziana preparava questa torta. In casa non le piaceva rimanere. Lavorava, la vecchia, nell’ufficio parrochiale sotto casa. E là le piaceva stare, col prete e le altre donne, a sistemare l’altare per la messa, a spinare le rose per Santa Rita.

Così, prima di uscire, impastava la massa, la spianava e la riempiva. Così, tutta pronta, lasciava la torta a lievitare nella teglia.

E quella lievitava tutto il pomeriggio, pasta e erbe e ricotta insieme, noi studiavamo e quella lievitava, rubavamo dalla credenza due dita di liquore con le fragole di bosco, e quella lievitava, il piano bar, all’interno del palazzo, apriva la musica, un cane abbaiava, si illuminava l’archivio nello studio dell’avvocato, e quella lievitava.

Guardavamo il forno spento. La torta lievitava, si alzava portandosi dietro il ripieno, fuoriusciva dai bordi, morbidissima per il latte, e scaldata dall’attesa di quella cena che era un regalo, un’eccezione.

La vecchia rientrava alle otto, il forno era a gas, la cena era pronta nel giro di poco.

La torta alle erbe la faceva in questo modo, abbandonata a lievitare per conto suo, autonoma, perché doveva sbrigarsi, la signora, aveva una gran fretta di vivere, e le verdure gliele aveva portate un conoscente già pulite.

Non ci metteva niente altro che quattro ingredienti, nessuna spezia, chessò, un pizzico di noce moscata, un pezzetto di mozzarella per arricchire l’impasto, forse per l’avarizia, ma di più per quella gran fretta di vivere che la faceva fuggire lontano dalle cose di casa.

La fotografo così, la torta, cruda, perché in questo sta il bello, nella lievitazione dell’attesa, l’attesa che arrivasse la cena speciale con le ragazze che ancora stanno nella parte più profonda del cuore. Tutte le ragazze della casa, compresa la vecchia.

In una ciotola lavorare velocemente la farina con il latte intero (a temperatura ambiente); poi, di fretta, versare un cucchiaio di olio e il lievito che sarà stato prima sciolto in acqua tiepida e zucchero. Salare.

Foderare con la pasta una tortiera, precedente imburrata e infarinata.

Versare, di fretta, il ripieno: le erbette saltate in padella e mescolate, poi, una volta fredde, con un uovo, la ricotta, una manciata di parmigiano, sale e pepe.

Mettere a lievitare nel forno spento, per qualche ora, finchè non tornate a casa.

Cuocere per 40 minuti a 180 gradi.

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Vermut a Madrid

Taberna Casa Ambrosio
Calle de la Bolsa,3
Madrid

Taberna Casa Ambrosio, Calle de la Bolsa, 3. Madrid

Il vermut della casa è alla spina, secco, forse appena chinato, artigianale.

Il posto è piccolo e caldo e fuori fa freddo.

Si sta stretti su sgabelli di legno quadrati e tavolini, e ogni sera ci facciamo largo per entrare.

Ma si sta bene, piove e qualcuno resta in piedi, fuori, sotto la pioggia, o sulla soglia. Qualcuno, dentro, accenna a un ballo di allegria.

Non si può parlare, dal rumore, dal vociare. Si beve. Si deve solo bere vermut.

Portano olive, tre fettine di salame e pecorino.

Non so che ore siano, l’ora del vermut allunga la vita. Quello alla spina, poi.

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Tortilla di patate a Siviglia

patate 600 gr circa

5 uova grandi

una cipolla bianca

parmigiano grattugiato (opzionale)

sale

pepe nero

noce moscata

vino bianco

olio di semi di girasole

La tortilla di patate, in Spagna, l’ho trovata ovunque. A ogni ora, in ogni bar. A volte morbida e alta, altre, bassa e più consistente.

A Madrid, una mattina di ottobre fredda e piovosa come l’intera settimana che l’aveva preceduta, era presto, chiudemmo fuori il vento e sul bancone ne arrivarono dodici, dodici torte calde, umide di uovo ancora non rassodato. Le servirono col caffè.

Ma quella che ricordo oggi sta a Siviglia, nel bar all’angolo di Alameda de Hércules, quattro tavoli all’aperto sulla piazza, la ragazza attraversa la strada coi piatti e i bicchieri in equilibrio, sul terrazzo di fronte, sotto un tendalino, apparecchiano, penso che sistemano già per il pranzo dell’indomani, giorno di Pasqua, è un sabato santo caldo, la piazza trasuda gente, birra, giovani studenti, turisti, bambini, cani, disperati e poliziotti dalla vicina stazione, sono ore che sto in questa piazza, e lei ondeggia gioia e musica.

La luce fa tardi.

Lì vicino, gli incappucciati del sabato santo parcheggiano le moto e si avviano al ritrovo per la processione serale, strano impasto di sacralità, traffico e vesti religiose che frusciano veloci lasciandosi dietro gli impegni terreni della giornata.

La donna del bar porta un Verdejo. È ghiacciato. Vedo la tortilla mentre la taglia, piccola, alta, una tortina morbida, quasi fredda che non si senta l’uovo, in questa serata calda di primaveraestate.

Domani vado via. Sai quegli amori improvvisi, che basta uno sguardo e dici, non ne uscirò, anche se dopo l’estate ognuno torna a casa, certo che ci scriveremo, certo che ci ritroviamo.

Voglio restare qui, vivere solo di notte, quattro ubriachi allegri nella strada, l’ostello con la prolunga delle lampadine che passa sotto le porte, e il profumo di tortilla in ogni bar.

E questa tortilla – che non ha l’erbetta aromatica come al bar della Cattedrale, troppo simile alla frittata italiana, né i gamberi nell’impasto come all’apertivo sul Guadalquivir, mentre un’altra Madonna attraversa il ponte – ha un sapore lontano, una spezia, noce moscata? chiedo in italiano.

La donna del bar mi fa , mastica una parola tipo vecchio, ma forse vuol dire antico, fa uno svolazzo con le dita, allarga il taglio della fetta, come a premiarmi per aver scoperto e condiviso il suo segreto, e pure il secondo bicchiere di vino mi sembra lo riempia di più.

E questa tortilla è la migliore che ricordi, la moneta nella fontana.

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Affettare la cipolla, scottarla in acqua e sale. Eliminare l’acqua di cottura (che la tortilla serve anche a colazione, deve conquistarsi una certa leggerezza) e stufare la cipolla con un cucchiaino di olio e un dito di vino bianco.

Le patate vanno lessate, non fritte, magari una mezza cottura, che restino sode.

Tagliarle a cubetti.

Sbattere le uova con il sale, il pepe e il parmigiano (una variante opzionale, gli spagnoli non lo prevedono). Unire patate, cipolle, noce moscata. Direi di abbondare, col sapore antico.

Cuocere la tortilla da entrambe le parti, con olio di semi di girasole, in una padella col diametro corto, che venga alta e morbida.

Servire tiepida, come quella sera sivigliana.

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Agnello alla martinese: la non rinuncia

Agnello, tutti i pezzi, 1 Kg

Salsicccia (tipo luganega), meglio se zampine pugliesi, 400 gr

Patate 700 gr

Una cipolla bionda

Vino bianco

Prezzemolo

Pecorino (tipo Rodez)

Pepe

Sale fino

Olio EVO

Ho trovato la trattoria su internet, esiste ancora, ma non la riconosco, non so se sia dovuto a una radicale ristrutturazione. I trulli dovrebbero essere quelli, ma l’esterno è diverso, c’erano monticelli di terra e un terrapieno dal quale saltare, ma sulle immagini del sito non mi pare ci siano più. Tutto è pulito e nuovo.

Ci andavamo di domenica, con i nonni. Sulla strada, dopo il pranzo, i piscialetti e le more, ma non da mangiare che la via era polverosa e mia madre diceva che non ci si poteva fidare, pure se la polvere di campagna era buona.

Sul menù questo piatto oggi non compare, e manco su altri, ristoranti, trattoria e beccherie che cucinano carne al fornello, ma io me lo ricordo. Mi ricordo il calore di tutto quello che poteva desiderarsi, non era necessario scegliere, non ci si andava mai d’estate, c’era freddo e era un piatto di calore. Il piatto della non rinuncia, del condominio ben attrezzato, della convivenza con la cremina.

Lo cucino in inverno, di sera. E così ci vengono tutti, mia sorella che ha una montagna di capelli ricci, e stasera, invece di telefonarmi, in un secondo ha fatto un salto di chilometri e poi torna in ufficio, e i nonni, mia nonna che cammina piano e il nonno col vestito grigio e il panciotto, pure i miei genitori che quelle giornate le avrebbero evitate volentieri, vengono i paesaggi sbiaditi da foto anni settanta, i mille muretti a secco che mi stanno nel cervello tipo ossessione e che mi servono per dividere, organizzare, selezionare, ordinare, prima e dopo, qua e là, tanto non tengono calce, una spallata e cadono.

Il languore del ritorno, sei persone in macchina accompagnando i nonni a casa.

Il tegame dovrebbe essere di alluminio, rotondo, che la roba, sotto, ci si deve attaccare. Olio di oliva, neanche tanto. Agnello, tutti i pezzi, a volte c’era il capretto, ma era una raffinatezza, solo mio nonno lo trovava nella macelleria di fiducia e qualche volta, se non soddisfatto, faceva lo sgarbo e cambiava fornitore.

L’agnello oggi si marina, per toglierne l’odore importante. Non lo faccio, mia nonna non lo faceva, che l’agnello di agnello deve sapere.

Dunque si mette tutto insieme, è un piatto facile, veloce: i pezzi di agnello, innanzittutto, il cosciotto tagliato a pezzi, le costolette, il collo. Mio nonno si faceva incartare la testina che ricompariva in frigo, poggiata a vista, nuda, appuntita, pallida, che guardava all’esterno, verso la cucina col suo occhio vitreo.

Poi la cipolla bianca tagliata a fette grossolane, le patate a spicchi, le salsicce. Che non erano di maiale, in quel posto fuori Martina Franca: per una commistione di territori confinanti, addirittura di province, le salsicce erano di carne bovina, le zampine, che adesso si trovano facilmente in Puglia, ma più di quarant’anni fa erano una cosa nuova, e strana, che mio nonno non amava.

Adesso che sto altrove, la salsiccia la compro di suino, sottile, e la taglio a pezzetti pensando che sia l’altra.

Il vino va spruzzato solo sull’agnello, non sulle patate, che altrimenti si ammollano. Salare pochissimo, in maniera selettiva.

La prima rosolatura in tegame, una decina di minuti. Versare mezzo bicchiere d’acqua e infine cottura in forno, fino a quando è cotto. Credo bastino quaranta minuti a 180 gradi, ma bisogna stare attenti, che la carne resti morbida e si formi la crosticina. Mai abbandonarlo, tenerlo sempre d’occhio, va spiato attraverso il vetro.

Un attimo prima della fine, prezzemolo a pioggia e pecorino (il Rodez, esiste ancora?) a manciate, che possa filare. Che è quella la caratteristica, il tocco geniale, il sapore che non ti aspetti. La sorpresa.

La salsiccia stempera il dolciastro dell’agnello, il pecorino è la sorpresa che non ti immagini.

Servire con borragine e cicoria di campagna lessate.

Un compleanno

L’altra sera abbiamo festeggiato un compleanno. Non il mio, che con anticipo pare non porti bene.

La mia amica, qualche anno più giovane, ma sempre nel range di quelli che non abbiamo più tempo, con tutti i posti da vedere, e le cose da fare, all’inizio mi ha fatto sorridere, con l’ansia da età. In verità ho finto di sorridere e fare la speciale, sono superiore e che me ne frega del tempo che passa.

Invece la notte non ci ho dormito. Mercoledì notte, dopo neppure quarantotto ore arrivava oggi e toccava a me fare i conteggi.

Al termine della notte agitata, che ho pensato sarà l’acciuga del Cantabrico che insegue il coniglio in umido dalla lunga lingua alle cipolle, sarà il Franciacorta bevuto che stasera è festa e domani niente scuola, dopo una notte da mal di testa infinito, mi è toccato fare i conteggi da compleanno.

Che poi io adoro i compleanni, quelli degli altri, ma soprattutto i miei. Lo sento che è una giornata singolare, tipo il carnevale originario, tutto è permesso.

Sono permessi anche i bilanci. Metti inoltre la fine dell’estate, l’inzio della scuola, settembre, e allora ho proprio dovuto.

E dopo certe premesse sono arrivata a alcune conclusioni.

Premesse

La premessa prima è l’estate trascorsa. Un’estate diversa. Un’estate lunga passata a scansare il sole. Insopportabile, mi affaticava essere sempre all’erta, vigile, sempre alla luce. Un’estate in cui, nel tentativo di nascondermi, mi sono persa. Ho cercato volontariamente di perdermi.

Ho capito che cosa significhi, praticamente, perdersi. Lo leggi, e pure gli spot pubblicitari delle auto che schizzano acqua attraversando buche da Camel Trophy invitano a perdersi, e io mi chiedevo, ma che diavolo significa, e invece sono riuscita a perdermi.

Forse non in luglio, avevo cominciato prima, ti perdi e non lo sai fino a che non ti ritrovi.

Insomma è bellissimo.

I sintomi sono stati: disorientamento (dove sto? come ci sono arrivata? chi sono questi intorno? che ci faccio e, soprattutto, ci voglio ancora stare? si mangia bene, perlomeno?), apatia (non so la strada e non mi importa trovarla, cammino un po’ allo sbando, schivo il sole e chissenefrega), senso di fame (il cervello può pensare una giornata intera a che cosa gradirebbe il corpo?).

Mica lo sapevo che si stava così bene.

Stavo su un’isola e il sole mi ha raggiunto sulla spiaggia dove atterravano gli aerei, che contavo i bulloni nella pancia. Compravo le birre in un bazar tenuto da indiani in un posto greco, erano del Bangladesh anche i vicini di casa che stendevano i panni sui rami di un bouganville sulla strada. Il traghetto passava nella finestra della camera ogni venti minuti, due compagnie diverse, buttavano giù il portellone per scaricare le auto ancora lontani dalla banchina, un roteare al volo.

Mi sono persa guardando tutta la notte, vento vento e vento, l’andirivieni di traghetti con luci come fossero modellini da nave da crociera, sul ponte neppure un’anima, ma il traghetto abbassava il portellone, attraccava, aspettava e nessun passeggero si imbarcava per l’altra sponda.

Riuscivo a concentrarmi solo su quello, il sole, il bazar, il traghetto ora di una compagnia ora dell’altra.

Ho il cervello fritto, ho pensato. Non scrivo, leggo poco, non riesco a fare programmi.

Una meraviglia.

Sfuggendo il sole, stavo poi in un paese lontano, devo essere impazzita, per accettare di volare tante ore, è innaturale, a piedi dobbiamo andare, dobbiamo stare sui piedi, mica siamo uccelli, ma andando ho detto sfuggo al sole, lì non mi fisserà più, non mi ossessionerà.

Invece il sole stava pure là a guardarmi, più stanco, certo, un giallino tenue, una sfumatura annacquata, dimesso, abbattuto, ma la risposta le voleva lo stesso, un indirizzo.

Che vuoi da me, non conosco manco la lingua, la scrittura, pensa se ti posso dare il mio indirizzo, dormo in un hotel, mangio aringhe, patate e zuppa di barbabietole. Di certo mi piacciono le bandiere di questo paese, e le cupole dorate, che secondo me le hanno fatte così luccicanti apposta, che tu, caro sole, da queste parti sei fiacchino.

Al ritorno il sole era sempre lì. Che senso ha l’estate, a che cosa serve? Davvero è utile tutto il caldo, l’ozio, bagnarsi in mare, andare alla ricerca, spostare prospettiva?

Estate faticosa. Lo so che non mi ero persa solo da un mese, come ho creduto, da tempo mi chiedevo, in sostanza, se ne valesse la pena.

Ormai a questa età. Ormai che ci sono quelli giovani e invece io.

Ritrovarsi è necessario. È trovare un indirizzo. Non metaforico, un indirizzo vero, la via, il numero.

Perché proprio quello, e che cosa c’entra con la vita di adesso?

Credo che, per ciascuno, da qualche parte qualcosa sia cominciato e altro sia finito, che da qualche parte abbiamo montato una casa prefabbricata per tirarcela dietro, qualcuno ha detto due parole e da quelle abbiamo preso il via.

Il mio indirizzo è un vicolo, ci sono entrata e ho pensato, era più largo.

Quando mi sono ritrovata, il sole era tramontato da due ore. Faceva un caldo umido che me lo ero scordato, come può essere bagnata la notte da quelle parti. Ma il sole era tramontato e c’era buio.

Vai a cercare le isole, attraversi mezza Europa, ti perdi e poi ti stai aspettando in via dell’Arciprete numero 7. C’è un refolo, il vento si arrotola svoltando l’angolo e viene in faccia sulla rincorsa. A terra, il gioco della campana. Ho respirato e l’estate era finita. Sui gradini di una casa in vendita, ho fatto una lista e due propositi.

Propositi solo per me. Una novità. Solo per me. Gli inquilini della casa in vendita me li hanno suggeriti. O forse sono stata io, a fare l’elenco puntato, l’io al tempo degli inquilini.

Conclusioni

● Chi c’è c’è, hanno detto gli inquilini.

● Affrettati con calma, e pensaci una volta sola, hanno detto gli inquilini.

● Scrivi lettere d’amore( e Ilaria mi ha regalato, a Natale, carta da lettera fiorentina, avevo pensato che cosa me ne faccio, ma gli inquilini lo sapevano, di quel regalo).Ora le scriverò, una lettera d’amore per ognuno. E che mi prendano per matta.

● Compra quelle due stanze accanto al vescovo San Procolo che va in altalena. Farà abbastanza freddo per scrivere lettere d’amore e altre cose. Il vino è buono, da quelle parti.

Cara amica mia del compleanno dell’altra sera, non nego che un po’ di paura venga, pensando che, come dite voi in Toscana, abbiamo scollettato. Nonostante ciò il tempo lo abbiamo, affrettiamoci ma con calma, scrivendo lettere d’amore e altre cose, con chi ci vuole stare.

Vi aspetto da san Procolo, ci staremo comodi. Il vino è buono, da quelle parti.